mercoledì 16 gennaio 2019

Il giovane Camilleri a Porto Empedocle


Non è rimasto più nessuno della variopinta squadra di buontemponi che a Porto Empedocle si nutrì negli anni Trenta di quegli interessi perlopiù culturali ai quali Andrea Camilleri ispirò la propria educazione letteraria. Nel tempo in cui Nanà che era Leonardo Sciascia prestava libri di Steinbeck e Dos Passos, Nené faceva leggere Hemingway e Faulkner agli amici. Nanà era a Racalmuto, Nené a Porto Empedocle, dall’altro lato dei Templi. Si sarebbero conosciuti solo molto più tardi, scoprendo di avere in comune le zolfare per parte di avi e Pirandello per parte loro.
Alfonso Gaglio, "Fofò"
Nené lesse Pirandello a quindici anni, quando con Alfonso Gaglio, detto Fofò (che come lui aveva il pallino per il teatro, ma sarebbe diventato avvocato anziché regista, pur scrivendo anch’egli romanzi e drammi), fondò pure una compagnia battezzata “Maschere nude” che riusciva a riempire di gente colorita il vecchio Teatro Mezzano. E tanto Nené fu dominato da Pirandello che un giorno gli toccò la ventura di conoscerlo “di persona personalmente”, aperta che ebbe la porta di casa, imbardato da accademico d’Italia e venuto a cercare nonna Carolina che gli era cugina. Nonna Carolina sarà la sua fonte privilegiata nella ricostruzione della “strage dimenticata” di Porto Empedocle, una testimone diretta più preziosa delle autorità ufficiali. Ma era stata un’altra nonna, nonna Elvira a sviluppare in lui da piccolo il genio della fantasia unita allo scrupolo per la realtà quando lo portava in campagna, di fronte alla casa che è stata appena abbattuta, e scavando a terra gli mostrava – e lui credeva davvero di vedere – il “mirmicoleone”, noto anche a Borges, metà leone e metà formica. Sono però i compagni di strada, di scuola e gozzoviglie a formare Nené negli anni dell’adolescenza. 
Negli stessi anni, a insaputa uno dell’altro e a poche decine di chilometri, Nanà e Nené, ragazzi europei di paesoni agrigentini, passeggiavano con i loro amici nel corso e concionavano di letteratura suggerendo autori e libri come profeti che portassero il verbo tra i miscredenti. Ma mentre Nanà alle nove di sera tornava a casa, Nené se ne andava con la compagnia da Castiglione, famoso per i cannoli che tanto sarebbero piaciuti a Montalbano, oppure al bar Ruoppolo a fare assaggini di tutti i liquori esposti e scherzi da ragazzi del ’25, oppure ancora di soppiatto nella pruriginosa pensione Eva evocata nell'omonimo romanzo.
Giuseppe Fiorentino, "Pepé"
A Ciccio Burgio, che doveva essere una perla di ingenuo, una volta gli dimostrarono per scommessa che non poteva continuare a dirsi socialista dal momento che era stato seminarista. Ciccino negò ma quello scanzonato e screanzato di Pepé Fiorentino, che come Burgio era stato al collegio Pennisi di Acireale, si procurò una sua foto da convittore e mostrò a tutta la tavolata il piccolo Ciccio in tunica nera sicché Burgio dovette pagare la cena a tutti senza pensare di controllare se sotto il naso gli avessero messo un fotomontaggio, trucco che per la verità aveva impegnato non poco l’intera combriccola e Nenè in primo luogo.
Non si trattava di cene propriamente francescane. Al ventunesimo compleanno di Nené, venti amici lo vollero festeggiare in trattoria e ancora prima di cominciare a mangiare sparirono qualcosa come trenta litri tra birra e vino. Nené preferiva il whisky ma non lo reggeva granché, né gli altri erano più gagliardi di lui, dimodoché le serate finivano in fumi tra la pensione Eva pullulante di donnine e gli scagni a ridosso del molo, dove una volta brancicava il mare, oggi costipati ambulacri eponimati dai commercianti di zolfo del secolo scorso: Marullo, Genuardi, Sorrentino… 
Gli zii Elisa e Massimo
Uno di loro era il nonno materno di Nené, Vincenzo Fragapane, nella cui palazzina, in Via La Porta 6, sono sempre vissuti tutti i Camilleri. Fino agli inizi degli anni Novanta c’erano anche gli zii Elisa e Massimo (morti nel 1990 e nel 1992), che stravedevano per quel nipote intellettuale che aveva la testa sempre al continente e il cuore continuamente a Porto Empedocle. Poi nella palazzina sono andati a vivere i soli cugini Carmela e Alfonso Buhagiar, che badavano alla casa di Nené aspettando che, ancorché sempre più raramente, tornasse con le figlie Mariola, Andreina e Betta più i nipotini com’era sempre stato ogni estate. Carmela e Alfonso tenevano sul tavolo Il birraio di Preston con la dedica di Nené: “Ai miei cugini che mi fanno ritrovare a Porto Empedocle un calore familiare che temevo perduto”.
I cugini Alfonso Buhagiar w Carmela Vadalà
Il calore non evocava certo quello dei cannoni di guerra, quando tutto il paese era stato evacuato. Il solo della brigata a essere chiamato al servizio militare fu Pepé che, avendo un anno più degli altri, rientrò nell’ultima leva. Pepé andò a Trieste mentre Nené con la famiglia sfollò a San Cataldo. Poi venne l’8 settembre e la comitiva si ricompose: alle due di pomeriggio, Ciccio Burgio, Alfonso Tripodi, Pepé Fiorentino, Giuseppe Sinesio (che sarebbe diventato parlamentare e più) si ritrovavano in casa di Nené a sentire Radio Algeri, giocare a carte e sfogliare i libri e le riviste che Nené si faceva arrivare. Quando arrivarono pure i libri americani, si misero d’accorso per comprarne uno ciascuno e passarseli. 
Ma la scoperta dell’America a Porto Empedocle era la per la verità avvenuta un secolo prima. Il paese aveva sempre avuto un debole per gli americani, che nella Guerra di secessione vi erano stati di passaggio, tanto che il corso principale era stato intitolato ad Abramo Lincoln, toponimo trasformato dal fascismo in Via Roma. Oggi Via Roma è poco meno di un suk africano dove la mattina le cassette di pesce fresco si vendono a terra accanto alle bagattelle dei marocchini. I quali si sentono a casa più che in un altro posto della Sicilia perché il santo prediletto è nero e africano come loro. Si chiama San Calogero e disputa il paese a San Gerlando, patrono di Agrigento di cui “Borgata del Molo” (la Porto Empedocle di oggi) fu nel secolo scorso lo “sbocco a mare”. La prima domenica di settembre San Calogero viene sbatacchiato tra canglori e clamori per tutti i vicoli del paese con grande sconcerto della curia che non vede in tanto totentanz se non un eccesso pagano. La festa è il tapis roulant del romanzo Il corso delle cose che riferisce di un gruppo di soldati americani neri presi nel ’46 dall’entusiasmo alla vista del santo del loro colore. Tutto vero. 
Camilleri ha fatto tesoro dei luoghi della sua memoria ricordando pure che nel Dopoguerra ci fu a Porto un commissario che si chiamava Montalbano. Del resto cos’è Il gioco della mosca se non un libro di storia più che un regesto di sicilianerie – la storia di Porto Empedocle e dei suoi personaggi da romanzo raccontata dal nonno Vincenzo al giovane Nené? Il quale Nené un giorno diventa grande e se ne va, benedetto da tutti i parenti, lasciandosi dietro la pensione Eva, il bar Ruoppolo, il Teatro Mezzano, il molo, Pepé e Fofò, i nuovi amici di Agrigento come Ugo La Rosa, Luigi Giglia e Mimmo Rubino, la rivista “Poker d’assi” da lui creata. Va via, prima a Milano, dove prende contatti con Elio Vittorini, poi a Roma dove conosce Silvio D’Amico. Il resto è storia nota e comincia quando Nené viene chiamato Andrea. Alla sua prima regia romana gli amici rimasti a Porto gli scrivono un telegramma con cento firme. Il testo è interamente in dialetto agrigentino e l’operatrice delle Poste di Roma chiama l’ufficio di Porto Empedocle. Non ha capito niente. Ma un giorno anche lei imparerà termini come “gana” e “tambasiare” nella lingua natia di uno scrittore che non dimenticherà mai i luoghi del cuore. Per tutta la vita telefonerà agli amici di un tempo perché lo aiutino a ricordare un particolare del paese, divenuto Vigàta, o una parola ormai desueta.