mercoledì 17 ottobre 2018

Che spasso ridere delle disgrazie altrui



Nel suo gustoso libro Istruzioni per rendersi infelici, Paul Watzlawick racconta una barzelletta che propone come aneddoto: un ubriaco cerca le chiavi alla luce di un lampione. Lo vede un poliziotto che lo aiuta. Dopo un po' l'agente gli chiede se è sicuro di averle perse e l'ubriaco risponde: "Non qui, ma là dietro; solo che là è troppo buio".
Volendo dare un seguito al racconto, dobbiamo supporre che l'agente ritenga l'uomo ubriaco oppure pazzo e chiama comunque un'ambulanza. Fine della storiella. La quale induce al riso per il suo carattere di assurdità in rapporto alla condizione di ubriachezza del pedone: ridiamo perché immaginiamo la scena e l'uomo che risponde con un non-senso. Che è il frutto di una mente che sappiamo alterata, motivo per cui prendiamo l'aneddoto come una barzelletta, perché è l'alterazione dell'ordine naturale che ci provoca una reazione di ilarità quanto più l'ordine venga smosso: così rispondendo esattamente allo spirito per esempio di quei video amatoriali che fanno ridere più le persone filmate si fanno male o si trovino in situazioni fuori la norma. 
Immaginiamo ora che la stessa storiella ci venga raccontata senza che ci dicano se l'uomo che ha perso le chiavi sia sano di mente, in stato confusionale, se ha bevuto o è malato di Halzheimer. L'effetto è una risata molto più forte perché la risposta illogica ci viene da una persona che supponiamo normale ma che ci appare anormale nel momento in cui quanto dice risulta inaspettato e fuori luogo. La scomposizione dell'ordine naturale è dunque ancora più dirompente e ridiamo per la sorpresa che ci procura scoprire un'anomalia innescata nell'ordinario. Se però ci viene specificato che la persona in questione è del tutto normale, la nostra conclusione è che voglia prendere in giro l'agente o fare una battuta di spirito per il dispetto di non ritrovare le sue chiavi, convincendoci che è quantomeno un cafone ingrato e oltraggioso. Anziché ridere ci fa irritare e più che una barzelletta la storiella ci appare un monito alla buona educazione. Allora diciamo che l'anomalia, lo sfaglio della realtà, fa ridere, mentre la normalità porta a riflettere e adduce tutt'altro che un sorriso o una risata.
La dicotomia è stata interpretata da Luigi Pirandello con la differenza tra "l'avvertimento del contrario" e "il sentimento del contrario", ovvero tra comicità e umorismo. Nel caso in cui vedo una vecchietta imbellettata al punto da sembrare grottesca ne rido perché mi appare comica, ma se so che si è truccata in maniera così sgargiante per piacere al marito più giovane di lei sono indotto alla riflessione e anziché una risata mi concedo un sorriso di indulgenza equivalente a un sentimento di comprensione. In entrambi i casi si ha la realizzazione del "contrario", cioè l'anomalia, ma gli effetti sono diversi.
Tuttavia tra l'aneddoto di Watzlawick e il teorema di Pirandello corre una differenza: nel primo la riflessione, determinata dal fatto che riteniamo normale l'uomo smemorato, porta all'avversione nei suoi confronti, mentre nel secondo la riflessione su un caso umano crea solidarietà, pur con un sorriso per Pirandello di benevolenza e di pietà. Ma davvero ci sembra motivo di umorismo una vecchietta con i capelli impomatati che si rende patetica per amore del marito o piuttosto ci rattrista perché ne vediamo la sofferenza ancora più se come lei lottiamo anche noi per restare giovani?
La riflessione non è mai causa di umorismo né tantomeno di comicità quando rispecchia la realtà, ovvero la normalità dell'ordine naturale. L'uomo in possesso delle sue piene facoltà mentali che perde le chiavi (ciò che del resto può avvenire alle persone più normali) e risponde con una battutaccia insolente ci riesce sgradevole, quanto più non troviamo in lui nessun segno di anormalità, perché riflettiamo sul fatto che non ha alcuna giustificazione per essere anormale. La persona che invece, sebbene normale, voglia apparire anormale perché persegue un fine del tutto comprensibile nel canone del normale ci riesce gradevole stimolando la nostra riflessione sul suo stato. 
Per ridere abbiamo bisogno di sapere che l'uomo è ubriaco e che la donna è pazza. Sicché ci diverte l'anomalia altrui e l'altrui minorità quanto più esse siano gravi ed eccezionali. Celebre il caso di quel presentatore televisivo tedesco che intervistando un uomo operato alle corde vocali per un tumore sbottò in una risata che costrinse a interrompere il programma e gli costò il licenziamento. La voce fessa dell'intervistato gli provocò una risata incontenibile e inarrestabile. Non ridiamo di un bambino che incespica e cade ma di un adulto che ha lo stesso incidente e ancora di più di un anziano che inciampa e stramazza a terra. Né ridiamo di un cane che dà una zampa a richiesta ma di quello che le dà entrambe.
Abbiamo bisogno della sorpresa, che cresce in proporzione all'eccezionalità dell'evento che viviamo: più è raro - e dunque inatteso - e più diventa comico. Di conseguenza non ridiamo tutti allo stesso modo. Se conosco una barzelletta non rido come chi la senta per la prima volta. La comicità e l'umorismo non sono dunque moti d'animo oggettivi. C'è pure chi resta impassibile di fronte a un paracadutista che rimane impigliato in un albero, chi si preoccupa se è un parente e chi ride a crepapelle.
Henri Bergson ha scandagliato a fondo questi aspetti nel suo saggio Il riso ponendo il comico e il riso in antitesi reciproca, il primo alla stregua di una minaccia sociale e il secondo come correzione, dunque in un rapporto di azione e reazione. Entro questo quadro cabarettisti come Maurizio Battista e Maurizio Crozza, i quali beffeggiano la vita politica e sociale, ottengono in risposta risate che non sono di consenso alla satira ma di difesa della società presa di mira. L'ubriaco che cerca le chiavi nel posto dove non può trovarle svolge, dando la sua risposta irrazionale, il ruolo del comico che vuole rompere le regole. Ne ridiamo per ricostituirle accettando il gioco d'identificazione, sapendo che l'opposto del gioco - ci dice Freud - non è il serio ma il reale. Non difendiamo alcun ordine se non ci sono regole da tutelare quando chi vuole essere comico è normale come noi, cioè reale.