lunedì 20 luglio 2015

Aristotele e il senso della tragedia



Se ricordiamo alcuni momenti della nostra vita invece che altri è perché attribuiamo ad essi un’importanza che li qualifica come essenziali: senza quegli avvenimenti impressi nella memoria la nostra stessa vita sarebbe infatti diversa. Li ricordiamo anche contro la nostra volontà per modo che possono quindi essere spiacevoli.
Ne faremmo volentieri a meno, ma così come non decidiamo le date belle che intendiamo preservare, non siamo in grado di cancellare quelle brutte. L’essenzialità necessaria alla nostra memoria agisce però in comune con la consequenzialità, senza la quale il nostro passato ci apparirebbe incoerente. Se, per esempio, non ricordiamo il gusto della torta mangiata al nostro matrimonio nulla cambia nella coerenza della nostra vita, ma se non ricordiamo che al ricevimento lo zio fece una scenata non possiamo spiegarci le cause originarie delle tensioni insorte nella nostra famiglia. L’essenzialità giova a rendere completo il passato, la consequenzialità a renderlo coeso.
Salvando i ricordi essenziali e consequenziali, entrambe le funzioni non fanno che eliminare quelli che tali non sono e cioè i ricordi accidentali che, presenti o assenti che siano, non mutano né la completezza né la successione coerente dei fatti memorizzati. Ricordarmi che nel mio viaggio in aereo da Roma a Londra nulla avvenne di memorabile non mi serve come nel caso in cui proprio durante quel viaggio ebbi il mio primo attacco di panico dal quale originò la sindrome di cui oggi soffro. 
La memoria tende perciò a cancellare dalla nostra storia i fatti ininfluenti e opera come fa esattamente il racconto di una storia. Se prendiamo per esempio un romanzo o un film o anche una narrazione orale resa sulla scena o tra amici, notiamo che quel che viene riferito è quanto sia ritenuto necessario al racconto nei suoi requisiti di essenzialità e consequenzialità. In un film non vediamo un personaggio percorrere tutta la strada che lo separa dal luogo dove è diretto, né lo seguiamo mentre compie azioni irrilevanti ai fini della storia. Allo stesso modo non aspettiamo che una famiglia si alzi da tavola prima che il padre parli alla figlia come le ha annunciato a pranzo. Il regista o il narratore procede infatti per vie concludenti e questo fa non in obbedienza a regole teoriche e tecniche che siano proprie della cinematografia o della narratologia ma in risposta a un fondativo e originario principio di realtà: la quale realtà si consegna alla memoria individuale e collettiva nel presupposto del doppio canone dell’essenzialità e della consequenzialità che è connaturato all’uomo. Ma come nasce questa capacità di rappresentare il mondo e la stessa vita selezionando i fatti da salvare e scartando quelli inutili?
Questa domanda basilare ci porta nel mondo di Aristotele che nella Poetica ha ricostruito e stabilito le linee di sviluppo del fenomeno. Non a caso lo Stagirita se ne occupa nell’opera che riguarda l’arte perché la domanda che ci si faceva trova proprio nell’arte la risposta migliore. E’ l’arte che fa da crivello e da officina della memoria, anzi del mythos, cioè del racconto. Sicché prima ancora della capacità di rappresentare il mondo preesiste nell’uomo una speciale funzione di tipo artistico che gli permette di tradurre e interpretare quanto lo circonda: quella che Aristotele chiama mymesis. La quale non è però riproduzione dal vero o imitazione pedissequa, ciò che noi intenderemmo invero come arte, ma suppone il ricordo di qualcosa già visto, quindi una conoscenza del reale. Aristotele fa l’esempio del cervo che sia dipinto con le corna: un errore di riproduzione che non squalifica la mymesis perché quel che conta è la cervitudine, l’idea cioè che conduce a riconoscere un cervo al di là di un difetto di rappresentazione. Altro esempio di Aristotele: un cavallo può essere dipinto al galoppo con entrambe le zampe anteriori in avanti, cosa che è impossibile ma che non determina una mancanza di mimesi perché l’animale raffigurato è, anzi ricorda, comunque e senza dubbio un cavallo.
La memoria è dunque anche per Aristotele un mezzo primario di conoscenza, filtrato però dall’arte, che così assume un’importanza ancora maggiore della natura in sé al punto che è possibile conoscere la realtà solo se la percepiamo artisticamente e in particolare poeticamente. E’ in quest’ambito che avviene lo scarto dei fatti inessenziali e si produce la consequenzialità necessaria a storicizzare gli eventi. 
L’invenzione letteraria capace di rappresentare il mondo è per Aristotele data soprattutto dalla tragedia greca e in secondo ordine dall’epica omerica: superiori filosoficamente anche alla storia, che non riesce appieno a fare opera di selezione tra fatti accidentali ed essenziali. Senza la poesia (quella che Platone giudica mera imitazione di oggetti che dopotutto sono presenti come immagine di una realtà ideale superiore), la realtà apparirebbe così confusa che la vita di Edipo risulterebbe storicamente incomprensibile mentre a teatro, privata delle banalità, delle accidentalità e delle inessenzialità e resa consequenziale, mutata insomma in un’opera d’arte, essa è del tutto intelligibile a chiunque. Tale scopo la tragedia consegue perché si serve della verisimiglianza e della necessità, cioè di ciò che è plausibile e di ciò che accade sempre. Ma cosa può dirsi plausibile e come può affermarsi che un evento accade sempre?
Aristotele trova che l’arte si forma per via di tentativi casuali fatti per ottenere un canone, un livello cioè di arte al quale tutti i poeti non potranno alla fine che conformarsi. E questo livello finale corrisponde alla massima espressione che la natura può offrire e quindi richiede: com'è nel caso della metrica che è presente in natura nella forma del linguaggio perfetto e che è necessario scoprire nella sua migliore espressione. Dopo il consolidamento del metro migliore, quasi una selezione naturale in campo semantico, non è più permesso a nessun poeta cercare linguaggi poetici diversi. Non solo nella poetica ma anche nella politica il migliore esercizio del potere si ottiene per via di comportamenti casuali: ce lo dice Socrate nel Menone di Platone quando afferma che il politico non sa mai perché raggiunge determinati risultati nell’amministrazione dello Stato perché non procede che tramite “opinioni corrette”, ovvero canoni che per caso risultano fondati alla fine di un lungo processo di elaborazione. Aristotele, quasi alla stessa maniera, parla di ”opinioni correnti” quando intende recuperare l'elemento dell'accidentalità. Non può non fare ciò, anche se prima ci è apparso del tutto convinto che la tragedia, che è il racconto per eccellenza, si forma scartando proprio l’accidentale: ammettendo infatti il verosimile, cioè il plausibile, deve anche accettare che nella vita umana l’elemento banale e di scarto possa determinare, perché anch'esso plausibile, cioè nello stato degli eventi possibili, un nesso di consequenzialità. L’esempio è la statua di Mitys che cade addosso all’assassino dell’uomo al quale il monumento era stato eretto. “Fatti come questi” dice Aristotele (per nulla sfiorato dalla supposizione che anche questo episodio rientra nel caso: ma qui si coglie tutto il clima divinatorio della pur elevata e razionalissima cultura greca) “sembrano non avvenire per caso”. Dunque l’evento casuale acquista un verosimile nesso di casualità nell’opinione comune che è quella corrente.
Aristotele stabilisce che se l’arte crea il suo canone grazie al caso, al poeta tuttavia spetta di trasformare la “successione casuale” in “consequenzialità causale”. Come può fare un'operazione del genere? Semplice: il poeta deve dire le cose non come avvengono ma come potrebbero avvenire secondo natura, ovvero secondo verisimiglianza e necessità, sicuro del fatto che le cose che potrebbero avvenire sono proprio le cose che avvengono grazie alla qualità dell’universalità di cui gode la poesia. 
Anticipando in sostanza la legge di Murphy, Aristotele osserva che le cose accadono perché plausibili e perché necessarie: plausibili dal momento che non contano i caratteri ma le azioni che comprendono i caratteri individuali (una vera rivoluzione valsa nell’invenzione letteraria a consentire che i personaggi non siano ottocentescamente descritti prima che parlino ma che agendo si presentino da se stessi), azioni che essendo presenti in natura sono universali; e necessarie dal momento che una condizione umana deriva da una precedente condizione, com’è nello stato di malattia che è una conseguenza dello stato di salute, e quindi da una memoria antecedente. 
Creare razionalmente il nesso di consequenzialità (esattamente come raccontando la guerra di Troia fa Omero, che scartando le inessenzialità rende intellegibile un evento remoto e complesso, anzi poetico e perciò gravido di pietà e paura) è il compito del poeta tragico. Che però ha bisogno di un pubblico capace di emozionarsi, cosa che è possibile solo se si ha una “conoscenza previa” dei fatti rappresentati sulla scena: il che significa che il pubblico deve essere adulto così da poter avere esperienza della vita. Conoscenza previa vuol dire che se vedo il ritratto di un uomo devo già conoscere quell’uomo per poter provare piacere nel riconoscerlo alla vista dell’immagine, altrimenti loderei la figura solo per l’abilità tecnica dell’artista senza averne alcun godimento. Aristotele chiama questo esercizio “conclusione ragionata” che implica l’idea secondo cui ogni apprendimento è di natura razionale e proviene da una conoscenza preesistente: la quale, come abbiamo visto, è questione legata alla capacità rimemoriale di ciascun individuo o di ciascuna società secondo l’esercizio della mimesi, cioè secondo la funzione di separazione che compiamo dei fatti accidentali da quelli essenziali usando i procedimenti mentali che ricaviamo dai principi dell’arte.
Immaginare la nostra vita e il nostro mondo come frutto dell’invenzione letteraria e non come sequenza di processi di evoluzione scientifica significa indirizzare il dibattito sulla nostra natura e la nostra origine a un Big Bang che se non riporta al centro la questione ontologica dell’esistenza di Dio arriva molto vicino al suo cuore trattandosi comunque di creazione. Anche questo, mercé la sua autorità massima, valida fino al Seicento e oltre, cioè Aristotele, ci dicono i Greci indicando il loro manuale nella tragedia teatrale. La cui essenza, la ricerca cioè della felicità nelle due forme della eutuxia, la buona fortuna, e della eudaimonia, la virtù, costituisce nella versione anche del suo rovescio, la caduta nell’infelicità, il destino perenne e immutabile dell’uomo. Per questo consideriamo la tragedia greca così attuale, perché parla a noi così come parlava ai suoi immediati fruitori: a riprova del fatto che la natura umana è immutabile, al di là del tempo e del progresso scientifico. Ma cos’è la tragedia e qual è la sua natura?
Oggi definiamo la tragedia in funzione del dramma, che riteniamo “tragico” se ha un epilogo funesto e “drammatico” se ha invece uno svolgimento gravido di tensione ma che non finisca con la morte di qualcuno. In età classica, prima ancora che il teatro elisabettiano confondesse i generi, la natura della tragedia si precisava invece in rapporto alla commedia, nella cui distinzione il teatro greco e latino trovava il suo indirizzo e il suo pubblico. Ma non è una diversità così facile da cogliere se Borges, in “La ricerca di Averroé”, apologo contenuto in L’Aleph, pone la questione nei termini di una difficoltà oggettiva. 
Borges immagina che l’islamista andaluso, impegnato a fare conoscere Aristotele alla Umma, non riesca a capire all’inizio della Poetica le due “parole arcane” che sono “tragedia” e “commedia” e che, intendendo fermamente attenersi alla tradizione musulmana per la quale “negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia”, concluda scrivendo che “Aristù chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del santuario”. Borges, che scrive nel Novecento, parla genericamente di dramma riferendosi alla tragedia e alla commedia perché osserva che Averroè non può sapere cosa esso sia senza prima aver capito cosa è il teatro, nella cui sola sfera dunque Borges comprende le due modalità del dramma.
Riprendendo il racconto di Borges, in “Girgenti, Sicilia” (nota raccolta in Pirandello e la Sicilia) Sciascia se ne serve per distinguere la tragedia antica da quella moderna e individuare la commedia nel suo discrimine: così riconduce la prima a Verga e la seconda a Pirandello, secondo uno “scarto geografico” stabilito tra Catania e Girgenti una volta accettato che nel Val Demone persiste la “visione greca della vita” improntata al sentimento verghiano del tragico mentre nel Val di Mazara, dove la cultura greca è affievolita, si è generato sotto un cielo arabo il moderno senso del comico che porta al sentimento pirandelliano del contrario e all’umorismo. Per Sciascia il fatto nuovo introdotto da Pirandello è l’aver portato la confusione di Averroé a signum individuationis di un modello di vita dove tragedia e commedia, in un “indistinto impetuoso scorrere”, si intrecciano nel “grande vario mutevole teatro del mondo”. Anche Sciascia riconduce quindi al teatro i generi della tragedia e della commedia, ma accoglie il Pirandello che, trovando il teatro nella vita, non fa più differenza: senonché la sua è un’ottica moderna che invale dopo la morte della tragedia come è certificata da George Steiner nel libro omonimo nel quale le cause non appaiono molto diverse da quelle stabilite da Friedrich Nietzsche nel suo libro intitolato invece alla nascita della tragedia. In realtà si tratta di accertare come la tragedia è nata, se è morta davvero e cosa in effetti si intende per essa.
L’autorità che per oltre mille anni ha imposto la sua concezione di tragedia è Aristotele. Il riscatto della sua ipoteca, giunto oggi al punto che Giulio Guidorizzi può dire che di teatro lo Stagirita non fosse l’esperto da tutti creduto, è valso a schiudere gli orizzonti a Schopenhauer prima e a Nietzsche dopo. In realtà Aristotele è il responsabile maggiore e originario dell’indeterminatezza della nozione di tragedia. Che manca tutt’oggi di una definizione soddisfacente, tant’è che la voce viene usata in ambiti contrastanti anche nel linguaggio comune: tragedia è considerata la morte violenta come pure quella particolarmente raccapricciante, dolorosa e impressionante; ma tragedia è anche un atteggiamento icastico e plateale, fino a diventare in Sicilia “tragediatura”, sinonimo di complotto o di messinscena. In generale è ritenuto tragico un esito funesto. Tuttavia non è per niente certo che nell’antichità la tragedia avesse lo stesso significato. In teatro e in letteratura l’indistinzione è altrettanto diffusa già dall’età elisabettiana e giacomiana e si perpetua nel Settecento di Alfieri fino ai novatori europei di fine Ottocento e primo Novecento. Il tentativo di dare una definizione condivisa all’idea di tragedia si scontra quindi con una molteplicità di accezioni che rimandano proprio alle origini della tragedia stessa e ad Aristotele in particolare.
La definizione data da Aristotele nella Poetica è quanto mai fuorviante perché ispirata all’imperterrito sforzo del filosofo di riuscire sistematico: sarebbe imitazione, o mimesi, di un’azione seria che, attraverso le passioni della pietà e della paura, ne permette la purificazione, cioè la catarsi, termine usato solo una volta e di variegato significato. Altrettanto oscura è la tesi aristotelica secondo cui la tragedia nasce da quanti intonavano il ditirambo, un canto accompagnato dalla lira ed eseguito da un coro danzante. La tragedia allora nascerebbe nel momento in cui un danzatore-cantante si stacca dal coro e si rivolge da solista (ma in dialetto dorico e non ateniese) al coro stesso, stabilendo così una drammatizzazione nonché un collegamento con l’arcaica lirica corale. Questa spiegazione non dice però perché la drammatizzazione debba chiamarsi “tragedia” se non accettando l’insufficiente e indimostrato riferimento al caprone come costume o trofeo, perché debba avere un fine catartico, cioè educativo, un contenuto prevalentemente mitologico, una forma più musicale che recitativa e un fondo religioso dedicato al dio orientale Dioniso. Ma soprattutto non dice perché la tragedia nasca oltre mezzo secolo prima della commedia, che è una rappresentazione di argomento contemporaneo e politico, resa in uno stile piano e discorsivo, desofisticata e ilare, e anticipi anche il dramma satiresco che più si presta alla scena e risponde a un gusto popolare più incline allo sberleffo e alla satira.
Se il teatro nasce tragico, ovvero con quel genere di drammatizzazione chiamato “tragedia”, è perché sin dall’inizio interpreta in maniera mimetica, cioè analogica, il sentimento tragico della vita inducendo al pessimismo, alla riflessione, all’elaborazione della sofferenza e anche all’insorgenza di uno spirito laico. Negli eroi dell’età dell’oro portati sulla scena il pubblico vedeva il proprio impulso a sfidare gli dei, pur nella consapevolezza che nessuno di loro avrebbe vinto un immortale dell’Olimpo, ma che proprio per questo destino, votato alla morte o all’infelicità, fossero ancora più da amare ed eleggere a semidei. Attraverso il loro esempio, già noto nell’epica omerica e nell’elegia corale ma adesso rappresentato sotto i suoi occhi come reale, il pubblico maturava insieme con il sentimento tragico della vita anche una coscienza politica che per altri versi lo Stato non poteva non dirigere al fine di ricavarne consenso. Così, quando Temistocle vuole spingere gli Ateniesi contro i Persiani e affida a Frinico la realizzazione di una tragedia commemorativa, “La presa di Mileto”, nella quale però ad essere rappresentata è la distruzione persiana della città per colpa del mancato intervento di Atene a sua difesa, il risultato è che il pubblico reagisce scoppiando in lacrime, cosicché viene fatto per sempre divieto di riportare in scena la tragedia.
Ma è proprio lo spirito politico che la tragedia via via assume a segnarne la breve vita, circoscritta in poco più di un secolo appena: muore infatti quando si perfeziona, artisticamente e tecnicamente, smettendo di rivestire il senso di un rituale. Responsabile del tracollo è soprattutto Euripide, che apporta le maggiori innovazioni, fra cui la dedivinizzazione della condizione umana nella cui sfera ogni vicenda debba risolversi da sé, salvo l’intervento ex machina della divinità che comunque opera pro o contro e mai in funzione di una superiore precettistica celeste. Euripide è quello che Aristotele difende dall’accusa di volgere le sue tragedie sempre in senso negativo, tanto da chiamarlo “il più tragico dei poeti”, ma è anche quello che, dopo gli anni Dieci del V secolo, introduce l’innovazione più dirompente, tale da portare la tragedia classica appunto alla morte, e cioè il lieto fine. In realtà non fa nulla di clamoroso. Già Platone nella Repubblica parla di finale aperto della tragedia ammettendo insieme la prosperità e l’infortunio; e lo stesso Aristotele parla di amartia designando la colpa dell’eroe tragico che fa il bene come può fare anche il male. Il doppio finale è comunemente ammesso, senza che sia chiamato in causa l’elemento psicologico dell’eroe greco circa la sua conoscenza di commettere il male: non vale dunque la differenza tra Medea decisa ad uccidere i figli e Ifigenia che non sa di stare per sacrificare il fratello. E’ Aristotele, che pure studia il teatro solo un secolo dopo ma dimostra di non conoscere l’uomo tragico, a introdurre fattori tali da destrutturare per sempre la materia.
Nei primi dodici libri della Poetica non mette mai in discussione il principio del doppio esito, anzi nel settimo lo statuisce esplicitamente, ma nel tredicesimo stabilisce che l’esito infausto della tragedia è una condizione irrinunciabile perché si possa parlare di vera tragedia. Eleva così Edipo re a tragedia perfetta e fa salva la sua definizione di tragedia come fonte di pietà e paura. Imputa l’obbligatorio esito infausto alla ricorrenza di un “grosso errore” nel quale cada l’eroe: che però, finendo per essere così sprovveduto, viene retrocesso al rango di uomo medio nel quale invalgono non più i crismi fondativi della tragedia, il “rovesciamento” e il “riconoscimento”, ma le qualità morali dell’individuo comune. Aristotele liquida anche la questione del doppio finale, per cui il malvagio fa una cattiva fine e il virtuoso si salva e merita ammirazione, accusando la debolezza degli spettatori e tacciando una tragedia del genere di addirsi più come commedia.
Così reimpostata, la linea che Aristotele sceglie nel tredicesimo libro appare in contrasto con tutta la Poetica ma risulta coerente con il senso più autentico della tragedia quale si determinerà nei secoli successivi e con la concezione originaria di tragedia. Il contrasto è soprattutto con il quattordicesimo libro, dove Aristotele ritratta il principio dell’obbligatorietà dell’esito negativo e torna sui suoi passi. Fa ciò perché capisce che un conto è la disgrazia, atuxema, e un altro l’errore, amartema, solo nel cui caso sono implicate la negligenza e la colpa. Edipo che uccide il padre lo fa in stato di totale inconsapevolezza e quindi per via di una disgrazia voluta dal Fato, mentre Polinice ed Eteocle che si sfidano a morte sanno di essere fratelli e vogliono tuttavia uccidersi reciprocamente. Nel secondo esempio il pubblico non può però provare pietà, che è uno dei pilastri su cui Aristotele fonda la tragedia, né può vedere un “grosso errore” in quella che è coscienza dell’azione che l’eroe compie o sta per compiere. Aristotele preferisce a questo punto parlare di “consapevolezza” e sconfessa l’enunciato del tredicesimo capitolo, ma si rende conforme alle altre sue opere che professano l’ideale della ricerca della felicità e pongono quindi la necessità del finale della tragedia non più aperto ma addirittura positivo. Epperò il tredicesimo libro è rimasto al centro della Poetica a dimostrare che una certa idea di tragedia vicina alla concezione più moderna circolava eccome nella Grecia classica tanto che Aristotele la fece per breve tempo propria: forse non come filosofo ma certamente come uomo.
La confusione nella quale Aristotele sprofondò senza uscirne è stata tramandata fino alla rinascita della tragedia dopo i secoli bui del Medioevo. Ma a prevalere sempre più è stata la concezione contenuta nel tredicesimo libro anziché nel resto della Poetica. Con Shakespeare la tragedia diventa l’equivalente della ventura umana, che generalmente si sviluppa nei termini di una caduta nell’abisso dell’infelicità. In La morte della tragedia George Steiner osserva che “la sventura che dà sofferenza, che è la condizione naturale dell’uomo, è frutto di una concezione laica della vita nella quale, come nel cosmo, vige il principio di casualità, per questo è assurda, ingiusta e colpisce a caso. La cultura greca non conosce redenzione e non proietta un sistema di premi e castighi oltre l’esistenza dell’individuo”.
La punizione è sempre maggiore della colpa. La prova è nelle Baccanti di Euripide: Dioniso condanna Cadmo e Tebe a un destino crudele; Cadmo protesta per la pena sproporzionata solo per aver offeso il dio, che però oppone l’inesorabilità della punizione. Scrive ancora Steiner: “Le forze che plasmano la nostra vita si sottraggono alla ragione e alla giustizia. Siamo circondati da demoni che ci rendono nemici a noi stessi. Per stare alla prospettiva di Tucidide, le nostre flotte faranno sempre rotta verso la Sicilia, sebbene tutti siano consapevoli di andare verso la rovina”.
La tragedia è dunque sempre irreparabile e la ragione sta sul fondamento del tredicesimo libro della Poetica. Ha ragione Aristotele a considerare Euripide, il primo Euripide, il maggiore di tutti i poeti perché il più tragico, ma è proprio Euripide ad essere additato da Nietzche come il responsabile della morte della tragedia. L’accusa si fonda sul ricorso che Euripide fa all’ottimismo socratico, a quel piano di razionalismo che costituisce la base di uno svolgimento irenico della vita, per cui la tragedia greca non appare più nella forma della potenza dionisiaca retta dall’ebbrezza, dall’istinto primordiale e dal prorompimento delle forze inconsce, sostenuta sui lamenti del coro, la vendetta che si perpetua di generazione in generazione, la febbre dei satiri, la rabbia e le pulsioni indomite di anime ribelli; e gli eroi sulla scena non sono più emissari del dio ma piccoli e meschini uomini alle prese con le loro ambasce quotidiane. Il lieto fine muta lo spirito dionisiaco dell’antica tragedia in un fondo apollineo al quale è dunque estranea la musica coribantica e menadica che Nietzsche immagina a suo presupposto e che Schopenhauer ha posto a suggello.
Proprio Schopenhauer ha mostrato di avere ben chiara, a suo modo, la distinzione tra tragedia e commedia facendone altrettanti paradigmi esistenziali. In Il mondo come volontà e rappresentazione osserva che “la vita di ogni individuo, se la si guarda nel suo complesso, mettendone in rilievo solo i tratti più significativi, è in realtà sempre una tragedia; ma esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia. Giacché l’agitazione e il tormento del giorno, l’incessante punzecchiatura dell’attimo, i desideri e le paure della settimana, gli incidenti di ogni ora, per mezzo del caso sempre intento ai tiri mancini, sono tutte scene di commedia. Ma i desideri mai appagati, le aspirazioni frustrate, le speranze spietatamente calpestate dal destino, i funesti errori di tutta la vita, col crescente soffrire e la morte alla fine, danno sempre una tragedia. Così, come se il destino avesse voluto aggiungere allo strazio della nostra esistenza anche la beffa, la nostra vita deve contenere tutte le doglie della tragedia, mentre noi non possiamo mantenere in essa neanche la dignità di personaggi tragici, essendo invece inevitabilmente, negli innumerevoli particolari della vita, scimuniti caratteri di commedia”. 
Schopenhauer, come Aristotele, giudica la tragedia il vertice dell’arte poetica perché “è la rappresentazione della parte terribile della vita e ci vengono presentati il dolore senza nome, lo strazio dell’umanità, il trionfo della cattiveria, lo schernevole dominio del caso e la caduta senza salvezza dei giusti e degli innocenti”. La “giustizia poetica”, quella Dike che nella tragedia greca opera in vista dell’elaborazione dei concetti di colpa e responsabilità e che sta, come nelle Supplici e in Antigone, dalla parte di entrambi gli antagonisti, poggia per Schopenhauer sul disconoscimento dell’essenza della tragedia e quindi del mondo: “Il vero senso della tragedia è l’approfondimento della verità che ciò che l’eroe sconta non sono i suoi peccati personali ma il peccato originale, cioè la colpa del fatto stesso di esistere”. Tra le tre specie di “rappresentazioni di una grande sventura” qual è la tragedia, quella che nasce dalla cattiveria, quella che è frutto di un cieco destino o aristotelicamente di un errore e la terza che partecipa della responsabilità degli antagonisti per cui la sventura non è una eccezione ma “qualcosa che risulta facilmente e da sé, quasi come essenziale, dall’agire e dai caratteri degli uomini”, Schopenhauer ritiene di preferire proprio questa perché fatta di “azioni che anche noi saremmo forse capaci di commettere e dunque non potremmo lamentarci di un torto; allora ci sentiamo rabbrividendo già in mezzo all’inferno”.
La cultura diacronica è dunque d’accordo sull’idea di tragedia come portato di una concezione derelettiva e pessimistica, senza scampo nella sua spinta a prefigurare abissi. L’intera Poetica aristotelica, che interpreta la conoscenza umanistica fino al Seicento, viene dunque sconfessata salvo che per il tredicesimo capitolo, quello rimasto come pietra d’inciampo. Finché tutto viene rimesso ancora in discussione con l’intrusione nel dibattito di Pirandello, il quale vede la tragedia da un impresagito punto di osservazione. In Il fu Mattia Pascal dice Anselmo Paleari annunciando uno spettacolo di marionette: “Ora senta un po’, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. Sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta”.
Il disposto per cui Oreste diventa Amleto non sottende solo la tragedia dionisiaca che si riduce ad apollinea e perde la sua identità originaria. Integra anche il dubbio che insidia la certezza, la commedia che mina la tragedia, la quale torna a essere indefinita e forse indefinibile, perciò ineffabile. E dopotutto è meglio così.