domenica 19 luglio 2015

Un Filottete molto siracusano




Il Museo Paolo Orsi di Siracusa conserva un vaso circonfuso nel mistero. Il vaso è quello che sul lato principale raffigura Filottete circondato da quattro figure, due delle quali non è stato possibile identificare se non per congetture.
Filottete è l’eroe greco che viene abbandonato dall’esercito acheo nell’isola di Lemno perché morso da una vipera e fonte perciò di miasma. Ispiratore dell’abbandono è Ulisse, ignaro come gli altri del fatto che Filottete ha con sé l’arco e le frecce avuti da Eracle. Senza di esse, rivelerà un indovino, Troia non potrà cadere. Di qui la decisione di Agamennone di mandare Ulisse a Lemno perché si impossessi delle armi. Assiste l'eroe la dea Atena che per impedire a Filottete di riconoscerlo, gli cambia la voce e i lineamenti del viso. Nel cratere di Siracusa Atena è facilmente riconoscibile dai suoi classici attributi, così come Ulisse per il pilos in testa. Ma chi sono l’efebo e la giovane donna presenti ai lati del vaso?
Il mito di Filottete è riportato da molte fonti, a cominciare da Omero che nell’Iliade lo cita tra i grandi generali greci e lo chiama “famoso arciere”. In teatro è rappresentato sia da Eschilo che da Euripide e Sofocle, soltanto del quale ci è giunto il testo. Tutt’e tre ricostruiscono il mito attraverso vicende diverse tra loro, a stare alla testimonianza di Dione Crisostomo che le ha lette tutte. Eschilo immagina in azione il solo Ulisse che alla fine riesce a convincere Filottete a seguirlo a Troia. Euripide aggiunge a Ulisse Diomede così che possa essere messo in atto il piano per cui, mentre Ulisse distrae Filottete, il giovane compagno possa rubargli l’arco e la faretra. Sofocle invece associa a Ulisse Neottolemo incaricato di eseguire lo stesso piano, senonché il figlio di Achille si pente del furto e restituisce le armi a Filottete. Sia Diomede che Neottolemo rappresentano il menos, cioè la forza, e infatti agiscono con violenza, mentre Ulisse è la metis, cioè l’astuzia che, nella cultura greca, forma l’altra dote necessaria a un greco votato al successo.
Il vaso di Siracusa ritrae un giovane gracile e imberbe nel quale gli studiosi disputano se riconoscere Diomede o Neottolemo, senza però considerare che entrambi sono due valorosi e gagliardi guerrieri che nulla possono avere in comune con l’adolescente magro e smunto che l’artista probabilmente raffigura seminudo proprio perché non sia facilmente confuso con uno dei due eroi greci. Il giovinetto è rivolto alla dea Atena ed è intento ad ascoltarla.
La dea protettrice di Ulisse lo sta probabilmente istruendo, ma si cadrebbe nell’illazione ad immaginare cosa gli stia dicendo senza domandarsi perché mai la figlia di Zeus debba trattenersi con un insignificante efebo. Alcuni autori hanno supposto che il giovane rappresenti Ulisse ringiovanito dalla dea, ma l’ipotesi non regge perché Ulisse c'è già: la duplicazione dello stesso personaggio in una scena è del tutto estranea all’iconografia classica. Chi è allora il giovinetto dall’aria così spersa e perché l’autore, il “pittore di Dirce”, l’ha voluto nel vaso in una condizione di rilievo tale da essere interlocutore di Atena? 
Negli stessi anni l’artista attivo a Siracusa sotto Dionigi il Vecchio ha anche disegnato un altro cratere (anch’esso conservato al Paolo Orsi) che ricorda l’assassinio di Dolone da parte proprio di Ulisse e Diomede. Anche qui è presente la dea Atena, ritratta nella stessa identica posizione profilata e con il braccio destro sospeso in un uguale gesto della mano le cui dita sono alzate e il palmo è rivolto in avanti. Che significato si può dare a questo gesto? Nella pittura rinascimentale indicherà senz’altro un segno di accettazione ma in quella classica gli studiosi non sono ancora riusciti a trovare un senso. A meno che non sia lo stesso, di approvazione e di benedizione: nel caso dell’assassinio di Dolone del tutto in coerenza con l’iniziativa dei due achei e nel caso del cratere di Filottete da intendere ugualmente come di consenso accordato a una condotta benaccetta.
I due vasi sono stati ritrovati in contrada Fusco, quindi nell’area siracusana, ragione per cui è possibile che il pittore di Dirce abbia voluto rappresentare, quanto al cratere di Filottete, una scena in qualche modo riconducibile a Siracusa. Vediamo perché. L’artista opera nel quarto secolo quando è già meta di culto il grandioso tempio di Atena voluto da Gelone alla dea protettrice della città e dell’Occidente dopo la vittoria sui cartaginesi a Imera. La presenza di Atena nella pittura vascolare di ispirazione mitologica non può dunque essere ignorata dall’artista in un tempo in cui è peraltro vivissimo a Siracusa anche il culto di Filottete, l’eroe greco in rotta con gli stessi connazionali e quindi simbolo del sentimento anallenico e siceliota che poco più di cinquant’anni prima ha scosso dalle fondamenta Siracusa e il mondo greco siciliano grazie al siculo Ducezio: sentimento non del tutto sopito nella lunga età dei due Dionigi, sotto la cui tirannide la figura di Filottete viene esportata in Magna Grecia e in Sicilia come fondatore di nuove città greche sì ma di spirito autonomista. 
A questo punto può diventare oggetto di ricerca l’ipotesi per cui il giovane efebo raffiguri il figlio di Dionisio il Vecchio che nel 367 prenderà in mano Siracusa e che nel 380, l’anno suppergiù di realizzazione dei due vasi, ha diciassette anni, proprio l’età che dimostra l’efebo del pittore di Dirce. Il quale, con la benedizione di Atena, ha quindi voluto magnificare il futuro tiranno, inserendolo in una scena dove per figurare Filottete, caro al padre ancora in carica, non poteva che suscitare il suo compiacimento. Peraltro già dal tempo di Ierone a Siracusa sorgeva una statua che rappresentava un guerriero malato nel quale Plinio il Vecchio indicava appunto Filottete.
Proposta dunque questa identificazione in chiave siracusana della figura dell’efebo, resta da riconoscere la giovane donna posta di fronte ad Ulisse il quale sembra rivolgerle la parola, salvo che non sia a Filottete che la fanciulla si rivolge, visto che l’eroe malato è a lei che sembra prestare orecchio. Sono state fatte nei decenni molte congetture vedendo in lei una ninfa o le divinità Apate e Peithò. Nessuna appare però in consonanza con la presenza, per la prima volta nel mito di Filottete, di una donna. Il cui ruolo è davvero enigmatico. 
La fanciulla ha una mano sulla roccia, una posizione eretta e languida, abiti ricchi ed ornamentali, un seno prosperoso e una silhouette molto gradevole. Potrebbe essere, come è stato proposto, la tentatrice indotta da Ulisse a circuire Filottete così da distrarlo e permettere il furto delle armi, ma l’eroe è malato e a tutt’altri pensieri che a quelli passionali può davvero avere testa.
Allora la sua presenza, simmetrica a quella speculare dell’efebo, può spiegarsi - osservando meglio il suo atteggiamento, soprattutto la mano che lambisce la caverna con un senso di vicinanza e solidarietà - alla luce delle stesse ragioni di tipo siracusano che hanno guidato il pittore di Dirce. La fanciulla rappresenta Siracusa che si volge in maniera tenera e protettiva, in posa di sacerdotessa, nei confronti dell’amato eroe: non in vista, come ha supposto fra gli altri Biagio Pace, di un rito funerario, ma al contrario di uno epilogo festoso e celebrativo, confermato dalla mise della giovane parata per le migliori occasioni.
Soltanto quasi seicento anni dopo, in età romana, troviamo il mito di Filottete ripreso in un sarcofago che ripropone la presenza di una donna vestita con chitone e himation come quella siracusana. La migliore ricerca suppone che il bassorilievo latino custodito oggi a Basilea riprenda il modello aretuseo e che la figura personifichi una sacerdotessa testimone del furto delle armi e quindi contraria all’uso della metis e del menos. Questa sacerdotessa può essere nel vaso del pittore di Dirce l’ipostatizzazione di Siracusa, come altri suppongono che sia invece dell’isola di Lemno e dei suoi abitanti. Giuste queste osservazioni, il vaso rappresenterebbe Siracusa molto più di quanto la sua collocazione al Paolo Orsi lasci pensare. E per il fatto che è pressoché sconosciuto al grande pubblico meriterebbe certamente una maggiore valorizzazione e migliore rilievo.