giovedì 4 aprile 2024

Lettera aperta a Loredana Lipperini


Illustre (si dice così) signora Lipperini, lei che ha aperto e sta guidando la caccia all’untore maschilista e misogino (con istigazioni a vomitare insulti sempre più villani - “Straccialo!” va incitando -, con infantili emoticon di approvazione sparsi come crusca a tutte le erinni, con l’epiteto di “livoroso” sinonimo di sessista che mi ha affibbiato, così scatenando la canea), si è chiesta perché nel violento dibattito che ha innescato in veste di pasdaran del fondamentalismo femminista letterario gli uomini siano non più di due dozzine e alcuni con seri dubbi di essere tali e altri al suo servizio nella speranza di avere citato un loro libro alla radio? Non solo nel suo stucchevole e narcisistico blog ma in tutti i siti che hanno ripreso e rilanciato la questione nata dal mio articolo su Doppiozero, a pronunciarsi istericamente sono solo donne, tanto che qualcuna si è chiesta dove siano gli uomini. Sono a guardare divertiti, esprimendomi intanto, non in pochi, totale vicinanza e condivisione, ben attenti tuttavia a non commettere lo stesso mio errore di gettare pietre nel vespaio. Ha presente il marito che legge in salotto mentre la moglie in cucina sbraita al telefono contro il mondo? Sta succedendo qualcosa del genere.
Sta cioè succedendo che gli uomini, quelli storicamente responsabili di body shaming, stalkeraggio, molestie e violenze, si stanno rivelando in questa occasione, semplicemente tacendo, dieci spanne sopra le vostre teste fumanti quanto a compostezza, lucidità mentale, educazione. Priva di argomentazione alcuna, persino una pseudo-intellettuale come Beatrice Monroy, non proprio una civitota o forse sì, se ne è uscita con un “Mah, poverino, un vecchio con tanta rabbia dentro”, attribuendo così, dall'alto dei suoi settanta e passa anni, le mie teorie a supposte incapacità mentali e frutto dell’invidia che proverei, come moltissime altre insinuano, per le autrici di successo. Converrà che bisogna avere un cervello davvero piccolo piccolo per arrivare a tali esternazioni. 
Eppure sono queste le amazzoni esagitate che ha scatenato mentre gli uomini che hanno letto il mio articolo (nel quale davo per scontate nozioni comuni a tutti e quindi risultato forse sbrigativo) hanno ben capito che non solo non manifesto forma alcuna di sessismo, ma che anzi riconosco il primato della letteratura femminile. 
Lo hanno innanzitutto capito i redattori di Doppiozero, sempre estremamente scrupolosi nel valutare gli articoli, accogliendo la tesi che il fatto nuovo (contraddetto ora dalla Giannone con La portalettere, che segna quindi un regresso) è costituito dall’affermazione di un genere romance non più legato a un carattere unicamente rosa ma aperto a contributi storici e sociali, financo politici, in nome di un’unità di quei generi che un tempo erano rigorosamente tenuti distinti. Questo ho scritto, ma le donne – solo loro, a cominciare da lei – non l’hanno capito. In verità non sapete cos’è il romance e la prova la trova in un post di Giulia Caminito (che lei ha ospitato nel suo blog senza correggerlo: quella che nel suo romanzo Campiello scrive di un carabiniere che dice a due ragazze: "Se non la smettete vi porto in questura", sic!) dove l’autrice delle più solenni castronerie scrive: “Vengono messe insieme scrittrici diversissime, sia quelle la cui scrittura ha una vera connotazione di genere romance come Erin Doom sia altre che con questo non c’entrano nulla, per esempio Viola Di Grado. Sfido a leggere Fuoco al cielo e a tornare qui per parlarne come di un romance, anche se tratta di una relazione amorosa”. Forte, no? Esisterebbero quindi romanzi di tono amoroso che però non sono romance. E che cosa sono allora?
Il pregiudizio comune nel pubblico femminile, ma non in quello maschile, è di ritenere che il romance sia una categoria inferiore perché comprende anche il rosa quando è nato e si è sviluppato come il più nobile modello di invenzione letteraria perché fondato sulla massima libertà espressiva e immaginativa, estro per l'insorgere di generi quali il dark, il postapocalittico, il fantasy, il distopico. Per via della sua natura popolare si è col tempo definito entro una sfera prevalentemente sentimentale, ma è certamente ovvio che non tutti i romance sono rosa e non tutte le scrittrici, pur dando romance, si valgano del rosa. 
Piuttosto, le Baccanti scalmanate che lei guida contro di me dovrebbero farsi vanto del fatto che oggi il romance si è andato precisando nel genere più femminile che fosse possibile creare: quell’intimismo che non è solo rosa, cioè storia d’amore a lieto fine, ma ha effetti anche sul nero, il sociale, il politico, secondo un’unità di generi sulla quale ho cercato di insistere. Vano sforzo, perché mi sono piovute accuse di confusione e di commistione tra autrici diverse, in sostanza di incompetenza. Eppure, a rileggere quel mio articolo, appare chiaro che nominavo autrici non siciliane di successo per dire innanzitutto come anche a livello nazionale le scrittrici sopravanzano di gran pezza gli scrittori. E li sopravanzano adottando le forme del romance, il che non equivale sicuramente a un'attività di infimo ordine.
La vera questione è un'altra. Il romance sta guastando la letteratura perché le scrittrici italiane di oggi usano forme espressive giocate sulla metafora insistita, sulla metonimia ricercata, sull’iperbole immaginifica, sulle similitudini più vertiginose, rendendo il romanzo femminile un risibile esercizio di stile. Tanto per fare qui un solo esempio, prenda proprio Viola Di Grado (lasciando perdere la madre Elvira Seminara, specialista in parrucchieri e discorsi di amiche al bar su pilates e pance piatte) che nel suo ultimo romance, Marabecca, esordisce con queste parole, tali da voler chiudere subito il libro: “La morte di Igor mi rese felice. Lo amavo da tre anni. Lo amavo come amano i cani”. Pensa che un lettore serio possa proseguire? Una lettrice sì perché trova quell’immagine deliziosa, magari senza chiedersi se tanto amore corrisponda ad altrettanto sesso praticato appunto alla maniera dei cani. E sono state infatti le sole lettrici a lanciare questo infimo libro.
Ebbene non c’è una sola autrice che non si serva a profusione, fino alla nausea, con accanimento cocciuto e deliberato, di queste trovate formali che hanno fatto della “descrizione”, la terza parte del romanzo insieme con “narrazione” e “interlocuzione”, un cascame di sciocchezze intollerabili al gusto maschile, ma dallo stesso gusto maschile mutuate in esperienze come quelle di Veronesi (legga la mia recensione al Colibrì in questo blog) e di altri autori spinti a fare propri gli stessi motivi, un po’ perché gli editori, ingolositi dai frutti del romance, chiedono più sentimento e un po’ perché il mercato, ormai posto sotto l’egida femminile, richiede tale genere di storie, per nulla turbato da scene come quella della Di Grado che all’inizio parla di una ragazza investita e riversa sull’asfalto la quale non pensa ai soccorsi ma ai ventenni che a quella età sono “una discoteca dello spirito”. Sob!
Sarà per grotteschi di questo tipo, come pure per lo stile piano, piatto, analogico, per le forme retoriche usate fino allo sfinimento, che solo il 19 per cento degli uomini, secondo le statistiche, leggono romanzi scritti da donne. Secondo me sono molti di meno, ma non lo ammettono. Personalmente le leggo tutte, anche se quasi mai interamente, perché sono affascinato dalla vertiginosa capacità che hanno le nostre autrici di guardarsi in profondità dentro l’ombelico, di trasformare ogni commedia in tragedia, di vedere nelle donne le eroine e le martiri di un mondo ingiusto e dominato dai maschi, di fare sempre e comunque autobiografia, mascherata o meno, di prendere la rampa per le più vertiginose e rocambolesche figure retoriche, di usare l'io narrante e il presente storico alla maniera del diarismo adolescenziale, di non scorgere che ogni storia, ogni relazione umana, anche amorosa, si svolge dentro un contesto, storico o sociale, che tradizionalmente il romance alla Giannone tende a eludere. A grande distanza pongo però le autrici anche italiane, da Matilde Serao a Grazia Deledda, da Anna Maria Ortese a Goliarda Sapienza, da Sibilla Aleramo ad Oriana Fallaci, che se hanno fatto romance hanno dato supremo spazio agli elementi storici, sociali e politici, tendendo così più al novel, la casa del non-fiction, del giallo, del thriller, dell'odeporico, del documento.
Ricordo che un giorno ormai lontano chiesi a Gesualdo Bufalino mentre eravamo in macchina quali autori contemporanei stesse leggendo, dando per scontato che qualcuno fosse sul suo comodino. Guardandomi come un postino di fronte al cane da guardia, mi disse: “Ma se devo ancora terminare tutta Emily Dickinson…”. Imparai allora che bisogna scegliere il meglio e che nel meglio ci possono essere anche le donne. Pochissime e certamente nessuna di quelle che oggi occupano le classifiche di vendita e sono celebrate con tanta enfasi innanzitutto da lei. Illuminano il cielo notturno come una stella cadente che si strugge nel desiderio di farsi fissa (immagine ispirata ai romanzi femminili letti).