lunedì 1 aprile 2024

I "temi femminili" di Loredana Lipperini, ecco chi ghettizza le scrittrici

 


Un mio articolo su Doppiozero, che voleva essere già dal titolo, “Il grado zero del romance”, una riflessione sul gusto attuale del pubblico, prendendo spunto dal romanzo più venduto dell’anno, La portalettere di Francesca Giannone, mi ha attirato un nugolo di contumelie e improperi su Facebook senza che però in un solo commento, al 90 per cento tutti di donne, figurasse un minimo di argomentazione a contrario o un tentativo di confutare le ragioni da me esposte.
E ci sarebbe da aprire tutto un discorso sulla volgarità, in linea con i tempi vissuti dalla letteratura, che alberga insieme con cafonaggine e improntitudine nella sfera dei lettori forti, quelli che tengono in piedi l’industria editoriale. Non si è sottratta nemmeno la sola persona che pure si è cimentata in una sorta di valutazione critica, la Loredana Lipperini strenua paladina della creatività femminile e vetero-femminista le cui teorie, frutto di una cronica ipertrofia dell’io, chiunque può ascoltare sulla radio nazionale e leggere nelle sue pagine Facebook nonché sul suo blog.
Dopo un suo primo tranchant giudizio di poche righe, nel quale bollava il mio articolo definendolo “livoroso e disinformato”, le ho scritto una mail rimproverandole la mancanza di motivazione, aggiungendo che se l’avvocato avesse concordato l’avrei querelata per diffamazione. La candida Loredana si è fatta allora prendere dal panico e ha divulgato in ogni sede possibile la mia intenzione di portarla in tribunale, ottenendo ovviamente solidarietà a man bassa, mentre nel frattempo ricevevo, sollecitati chissà da chi, inviti a ripensarci: quasi che adire le vie legali costituisca una minaccia o una infamia, a meno di pensare che Lipperini gridi al fuoco per richiamare l’attenzione contando di far credere di non averlo appiccato.
La motivazione, chiamiamola così, è arrivata con un breve testo sul suo profilo Facebook, non degno certamente della critica letteraria che si professa, privo in verità com'è di reali argomentazioni critiche e farcito di enunciati invece che di dimostrazioni. In breve Lipperini, nell’intento di provare perché il mio articolo sarebbe livoroso e disinformato, ha sciorinato un rosario di cose sapute per dire all’ingrosso che non tutte le autrici da me citate hanno scritto romance – che grande scoperta scientifica -, arrivando poi alla battuta da seconda media del tipo “Se Viola Di Grado è romance io sono Taylor Swift". Sì, precisa.
Fatta salva la supposizione, certamente molto fondata quanto ai commenti di tutti gli altri, che non sappia esattamente cosa sia il romance, Lipperini (che nel feuilleton di Stefania Auci I Leoni di Sicilia non ha trovato la parola amore quando il romanzo non tratta che di matrimoni e relazioni amorose) non ha voluto notare che nominavo alcune scrittrici nazionali, in aggiunta a quelle siciliane di successo, per indicare un fenomeno incalzante, quello che vede primeggiare il genere narrativo nel quale l’amore in tutte le sue molteplici forme, anche solo per la Sardegna come in certa Michela Murgia, è declinato quale motivo conduttore e prime mover. Certo, ci sono stati anche grandi autori che, come Flaubert e Tolstoj, hanno scritto d’amore ma nessuno vorrà pensare spero che Emma Bovary e Anna Karenina siano figure che orbitino attorno alla sola stella dell’amore. E se è anche vero che autori contemporanei come Veronesi e Trevi frequentano àmbiti narrativi propri del tema amoroso, benché il loro sguardo non sia quello richiesto dal romance che non concede spazi a intrecci che non siano variamente sentimentali, è pur vero che molti autori di oggi stanno adottando modelli da romance per cavalcare l’onda del nuovo corso.
Sono stato accusato di sessismo, di maschilismo e di incompetenza, oltre che essere accostato a Vannacci e al ministro Sangiuliano, nel presupposto che io abbia voluto denigrare la narrativa femminile stabilendo un diaframma tra essa e quella nobile di genere maschile. Epperò - udite, udite - è stata proprio la prode Loredana a creare una netta separazione e a parlare di letteratura femminile da contrapporre a quella maschile. Volendo «tornare su una questione» che le «sta a cuore non da oggi, e che è quella delle scrittrici», appena lo scorso 21 marzo così scriveva infatti su una delle sue tante pagine Facebook:

«Che noia, diranno i soliti, ancora sulle quote rosa in letteratura. Affatto. Continuo a pensare che occorra parlare della scarsa “visibilità” delle scrittrici, nel senso di riconoscimento di autorevolezza, nel senso che lo stesso libro firmato da uno scrittore in molti casi susciterebbe un fiorir di elogi. Ma bisogna parlare anche del fenomeno contrario, secondo il quale molte lettrici sceglierebbero, dicon le tendenze, di leggere con maggior riluttanza il testo di uno scrittore di sesso maschile, specie se esordiente o quasi. Generalizzo, evidentemente, e altrettanto evidentemente esistono le eccezioni virtuose.
«Non sto parlando di letteratura, attenzione, bensì di mercato, ancora una volta. Ora, quando nel lontanissimo 2007, in Ancora dalla parte delle bambine, parlavo di re-genderizzazione nei giocattoli, negli spettacoli televisivi, nelle pubblicità (questo per maschi, questo per femmine), ho peccato di ottimismo nei confronti dei libri, che immaginavo meno contagiabili dalla faccenda. Invece, mi sembra che stia avvenendo qualcosa di molto simile: perché si tende sempre più spesso a parlare di comunità di lettrici come qualcosa di distinto dalla comunità dei lettori? Perché si pensa che le lettrici prediligano un certo tipo di romanzo dove, ancora una volta, rispecchiarsi? Perché ci si rivolge loro, come detto altre volte, con copertine da ragazze e con ragazze? Perché si pensa che i temi “femminili” vendano di più? Perché è un dato di fatto. Ma non sarà che quel dato di fatto stiamo contribuendo a crearlo?
«Mi inquieta questa idea e secondo la quale la lettrice sarebbe meno propensa, che so, a leggere Aramburu o Sebald. Mi inquieta, ancora una volta, la negazione del fatto che ogni lettore, e lettrice, ne contenga molti, che a seconda del momento e dello stato d’animo scelgono David Foster Wallace o Elena Ferrante. Mi inquieta, infine, che quella che sembra una rivolta (e in origine lo era e lo è: noi scrittrici, noi lettrici, eccetera) rischi di diventare un boomerang, e una gabbia.
«Nei fatti, poi, libri come quelli di Federica Manzon, o di Claudia Durastanti, o di Viola Di Grado, o di Carmen Pellegrino e, immagino, quello imminente di Helena Janeckzek (dico “immagino” perché non l’ho ancora letto, ma intuisco: ne riparleremo), non rientrano affatto nella categoria “da donna a donna”: parlano di donne, certo, ma soprattutto parlano del mondo. Eppure, continuo a non liberarmi dalla sensazione che ci troviamo in un bell’impiccio, ancora».

Dunque per la fin troppo sopravvalutata Lipperini ci sono le “quote rosa”, le scrittrici richiedono visibilità e riconoscimenti, uno scrittore incassa elogi negati a un'autrice, le lettrici non amano granché gli autori maschi e tendono a rispecchiarsi nei romanzi di loro gusto, si assiste a una genderizzazione che distingue comunità femminili e maschili, le copertine dei libri per ragazze hanno una loro peculiarità diversificata, i temi femminili vendono di più. «È un dato di fatto» sancisce, ripetendo quasi uniformemente quanto ho scritto io senza ancora avere letto questa sua nota. Ma, guarda un po', sono però io ad essere sessista e a porre la questione dei due forni.
Ma cos’è che distingue così marcatamente per Lipperini il genere narrativo femminile? Quali sono insomma i “temi femminili” richiamati da lei? Non lo scrive, perché non ne ha idea, ma va da sé che non può non trattarsi che del romance, magari nella sua versione intimista più che rosa. Il quale è un grande contenitore che, come notavo, comprende più generi uno dei quali è appunto il rosa, senza che però comporti l'equazione romance uguale rosa nel senso che le scrittrici italiane scriverebbero solo romanzi rosa come intendiamo il termine. Scrivono romanzi nei quali però da un lato il sentimento è prevalente e da un altro la trama è affidata a una maggiore libertà espressiva, giusto quanto diceva Hawthorne secondo il quale "quando uno scrittore chiama romance la sua opera, è quasi inutile osservare che pretende una certa libertà sia riguardo al suo stile che riguardo al suo materiale". 
Il termine romance sfugge comunque in maniera anguillare a una definizione che non sia per sottrazione, sicché diciamo che è romance ciò che oggi non è novel, l’altro grande genere anch'esso con i suoi sottogeneri. La differenza principale è l’aderenza alla realtà e al certo storico che premia il novel rispetto alla libertà inventiva concessa al romance. Il quale nasce dal romanzo popolare e tende a realizzare nel lettore sogni e desideri. Di qui il passaggio al romanzo idillico e quindi a quello rosa, fino a quando ciò che era nel Rinascimento (e ancora prima) un elemento costitutivo della valorosa avventura e della ricerca spirituale, cioè l’amore, diventa un connotato compenetrato, ma non il solo, nel romance, parola che oggi ha finito per acquisire nel pubblico femminile una accezione negativa e riduttiva. Da smaltire.
Senonché si potrà liquidare il romance solo il giorno in cui una scrittrice anche non italiana scriverà un romanzo come Guerra e pace, Lo straniero o I miserabili, dove i “temi femminili” (azzardiamo: introspezione psichica, familismo, rapporti di gomito, orizzonte domestico, discendenze avite, nostoi, agnizioni, relazioni tormentate…), pur presenti, recedono di fronte alla enorme potenza dei temi storici, sociali e politici. Persino in autrici come Virginia Woolf e
Charlotte Brontë, molto meno in Jane Austen che propende per il novel (e fatto salvo il caso che ricordo di Pearl S. Buck e del suo La nostra terra) i “temi femminili” si contendono lo spazio con quelli sociali, secondo la distinzione di generi che nel mio articolo intendevo precisare.
Possiamo concludere. La sola persona, forse la più avvertita tra tutte, che ha voluto replicare al mio articolo, Loredana Lipperini, dalla quale mi sarei aspettato una forma di saggio sullo stato della letteratura di oggi e la condizione delle scrittrici anziché una serie di osservazioni simili a pensierini alla brace, si è lasciata andare a considerazioni di dozzina, di nessuna validità, per modo che quello che pensavo di innescare, cioè un dibattito rigoroso e approfondito sul perché un misero romanzo come La portalettere (che nessuno dei miei detrattori ha letto non avendolo mai citato) stia avendo tanto successo e se le cause non siano da ricercare nel prorompente successo del romance, non ha sortito che una caciara e una gogna social condita da un profluvio di insulti cui ha dato propellente proprio la Lipperini, che pure dovrebbe rivestire il migliore ruolo, Ma ahinoi la letteratura oggi è questa: il portato di una narrazione di intrattenimento tutta di stampo femminile, “da donna a donna”, scrive Lipperini convenendo con me, che appare sostenuta da un mondo di lettori arrabbiati, isterici, in confusione mentale, pronti solo a digrignare i denti contro chi vuole ragionare. 
Certo, leggere commenti nei quali viene ricordata l'età come segno di minorità mentale o l'anagrafe geografica oppure qualche termine sbeffeggiato perché desueto (o forse sconosciuto) o ancora il fatto di avere pubblicato in selfpublishing alcuni degli oltre venti libri usciti o di aver lavorato per La Sicilia, fa pensare di avere a che fare non con lettori di un certo rigore morale ma con Erinni e Mani allo stato primitivo. Ma se nemmeno la Lipperini, la pasionaria della nazione selvaggia, è in grado di avanzare tesi sostenibili, ciò che avrei voluto
 leggere, cosa ci si può aspettare da gente alla quale i libri fanno più male che bene? La stessa gente che, dall'alto di una nobiltà d'animo data dalla letteratura, deplora i talk gridati e i politici sguaiati e poi, come in questo emblematico caso, si rivela la peggiore specie.