sabato 30 settembre 2006

De Carlo tra gli eccessi di Chiesa e Stato


 
Il canone invariato di Andrea De Carlo giostra sempre tra due modelli umani di condotta: uno che spinge alla fuga, l’altro che induce all’isolamento entro una costante alternanza di movimento e stasi, azione e contemplazione, folla e romitaggio, città e campagna. Nelle mille variazioni di questo tema unico, che fissa dell’uomo contemporaneo la sua condizione, l’autore che ama moltiplicarsi nei suoi personaggi, parlando di altri per parlare alla fine sempre di sé, non recede mai dal suo imperativo: il rifiuto del mondo presente. E se negli ultimi romanzi, Pura vita e Giro di vento, come anche Due di due, il motivo della fuga dalla società si precisava in una netta cesura con la circostanza, ragione per cercare riparo nel bosco, dove magari perdersi, adesso in Mare delle verità assistiamo a un intervento di verifica dell’intero itinerario liberatorio: il ritorno alla città per misurare la propria distanza e saggiare il proprio stato di déraciné dal mondo del passato, l’infanzia e la famiglia.
Operazione che si conclude in un irrigidimento delle posizioni e in una presa di distacco senza ormai concessioni, tale da sottendere una forma di emancipazione sostenuta sui valori spirituali della difesa dell’ambiente, della qualità della vita, della salute, dei legami affettivi. Il gioco a interrompere improvvisamente i contatti, che abbiamo visto in gran parte dell’ultima produzione decarliana, qui assume il senso morale di un désengagement dalla vita parentale: Lorenzo Telmari, solitario esteta dallo spirito anacoretico, scrittore innamorato del mare e del borgo rurale, è un dropout idealista che si pone in maniera antitetica al fratello Fabio, dandy materialista ed epicureo che persegue scopi banausici: la sauvagerie dell’uno si scontra con la mondanità dell’altro a designare due sfere che pur nate insieme si allontanano senza sosta. 
Alfieri di concezioni contrarie, la civiltà e la civilizzazione, Lorenzo e Fabio (uno scrittore e l’altro politico) personificano due tensioni sempre più vibratili e sentite, giù intuite da Vittorini quando distingueva la cultura dalla politica affidando la società al primato della prima. E così come Vittorini poneva la questione nei termini di una affermazione di verità, anche De Carlo riconduce il confronto tra le due prospettive a una prerogativa epistemologica, salvo fermarsi a un passo dal risultato una volta accertata l’impossibilità della prestazione: la verità si configura infatti sempre in versioni, il cui solo statuto trova applicazione in presenza di un fatto quale che sia.
E versioni della realtà sono anche le interpretazioni dei fatti, cosicché l’abnorme crescita della popolazione mondiale può essere vista come una degenerazione solo da chi consideri il controllo delle nascite una necessità impellente e non un tabù da regolare secondo i precetti di una chiesa che predica come unica misura la castità.
Il laico Lorenzo e il clericale Fabio interpretano quindi il mondo alla luce della loro educazione finendo per rendersi uno ostile all’altro ed entrare in rotta di collisione. Ecco qual è lo scenario che De Carlo prefigura: se non si condivide nel mare delle verità quella più oggettiva, il futuro minaccia la deflagrazione della specie, l’annientamento delle risorse, la distruzione dell’ecosistema.
Il titolo del romanzo ripete quello del memoriale del cardinale senegalese, con la differenza che è coniugato al plurale: non una ma più verità.
Il cardinale parla di una verità, mentre nel romanzo le verità sono in effetti più di una: c’è la verità che cerca Lorenzo, il protagonista, la verità dei due ragazzi ecoambientalisti, la verità ufficiale, tutte le verità soggettive dei vari personaggi che esaminano la vicenda dal loro punto di vista in una specie di gioco di specchi.
Il tema principale è quello della crescita demografica, che integra una messa in stato d’accusa della Chiesa.
Sì, anche se naturalmente la Chiesa non è la sola responsabile perché c’è un concorso di posizioni e di ragioni. Certo, la responsabilità del Vaticano è enorme ma nella politica degli interventi non è da meno quella degli organismi mondiali perché sortiscono lo stesso disinteresse: la non azione su una questione che credo sia la più esplosiva che esista.
Crede che agisca una sorta di neofondamentalismo nella Chiesa?
Credo che nella Chiesa ci sia un dibattito in gran parte sotterraneo. Basta pensare alla posizione espressa dal cardinale Martini, che non è certo l’ultimo dei parroci di campagna, ma uno dei principi della Chiesa, indicato già come papabile: in modo abbastanza chiaro ha detto in un’intervista che di fronte alla tragedia dell’Aids il profilattico è il minore dei mali. Questo indica che non c’è un fronte compatto. E del resto conosco molti sacerdoti che sul campo vivono un dramma quotidiano fra quello che pensano si dovrebbe fare e quello che invece viene indicato loro di predicare.
Non ha tenuto conto di una possibile reazione della stessa base cattolica alla sua accusa?
Quando si ha un’opinione e non si hanno dubbi nel sostenerla, come nel mio caso, credo si debba avere il coraggio di esprimerla nei termini più chiari possibili. Io credo di esserlo abbastanza: la mia non è una posizione anticattolica ma una posizione contro una politica precisa che secondo me ha effetti devastanti. Se poi il rischio
che corro è di suscitare reazioni negative, pazienza: mi riconosco come ogni scrittore la responsabilità delle mie opinioni.
L’Aids è indicato da lei come la prima causa che incide sul controllo demografico. In che rapporto?
Si tratta di un flagello connesso. Se uno volesse isolare la questione, che comunque riguarda un numero ormai enorme di persone, quasi 50 milioni tra sieropositivi e conclamati, come dire l’intera popolazione italiana, allora a maggiore ragione è ingiustificato essere contrari a promuovere forme di prevenzione natale.
Tra le righe sembra che lei voglia avanzare la perversa ipotesi secondo cui l’Aids sarebbe una forma accettata di controllo demografico: un calmiere che decima la popolazione e rallenta la crescita.
Sarebbe spaventoso. Folle, tra l’altro: perché ci si troverebbe con decine di milioni di ammalati il cui costo sociale sarebbe pari alla devastazione del tessuto sociale che ne deriverebbe. A quel punto il problema non sarebbe più il controllo demografico ma la sussistenza della forma stessa della vita.
Il fatto che la Chiesa si mostri nel romanzo preoccupata della divulgazione di un semplice memoriale, tanto da perseguire disegni omicidi, non postula una forzatura tale da rendere la fabula improbabile?
Proprio per questo trovo appropriato parlare di verità al plurale. Perché tutto sia improbabile. Volevo costruire la storia in modo che gli eventi, dall’esplosione della sede degli ambientalisti alla morte dell’amico del padre, l’eminente virologo, alla stessa morte del ragazzo, potessero prestarsi a diverse interpretazioni, cosicché tutto 
risultasse casuale: il virologo potrebbe essersi suicidato come sostiene la polizia, l’esplosione potrebbe essere stata causata da un impianto a gas difettoso. Oppure i fatti possono non essere stati casuali ma dolosi. La mia idea era proprio di creare un meccanismo narrativo che non rispondesse al romanzo di genere, una successione di eventi cruenti in un crescendo fino a un parossismo finale, ma volevo che gli eventi avessero la stessa ambiguità e casualità cui attingiamo ogni volta che non riusciamo a spiegarci fino in fondo qualcosa di traumatico che succede.
E questa impostazione dà forza alla supposizione secondo cui lei ha scritto un anti-thriller.
Una buona definizione. In effetti non volevo adottare gli stilemi del thriller: i libri di genere di solito mi interessano molto poco come lettore e non avevo nessuna intenzione di crearne uno da scrittore. Quello che volevo fare era inventare una storia per parlare di temi che mi stanno a cuore, una storia molto tesa, con un filo che costringe ad andare avanti.
Del resto la conclusione è del suo genere: cioè rosa. Mancano le conseguenze della divulgazione del memoriale mentre abbiamo un abbraccio sentimentale.
La conclusione della vicenda è lasciata in sospeso perché potrebbe essere di qualunque tipo. Invece mi interessava la storia da un punto di vista personale, quello di Lorenzo, che è una specie di naufrago asociale.
Il romanzo d’amore fa premio dunque sul thriller?
Io credo alla stratificazione dei livelli. Mi piace molto l’idea che un romanzo viaggi su vari piani e che quindi siano possibili chiavi diversi di lettura. La storia d’amore ha un peso importante, ma ci sono anche i temi di fondo e poi c’è la trama portante che trascina avanti. In realtà il thriller per amore corrisponde sempre a una mia ricerca di sentimenti forti, di palpitazioni.
Qui per la prima volta, accanto a questo tipo di suggestioni, troviamo un debito alla moda tradotta da Dan Brown: l’enigma da sciogliere, il complotto, l’elemento esoterico, la coppia protagonista, la ricerca, e persino il Vaticano.
Non era nelle mie intenzioni replicare. In verità Brown non ha inventato niente ed è tra gli autori più scadenti del genere. Da altri è venuto il romanzo a chiave per successione di enigmi. C’è sì la coincidenza del Vaticano, ma io affronto una questione ben presente e non esoterica.
C’è un’altra presenza centrale ed è la politica. Fabio, l’onorevole, incarna il cattivo?
Anche in questo caso volevo vedere Fabio dal di dentro della sua famiglia e quindi con gli occhi del fratello Lorenzo, che osserva una figura di politico opportunista, pragmatico, di quella generazione di politici che non fa ostentazione di ideali e di sogni.
Ha voluto stabilire l’ambivalenza archetipica tra un Caino e un Abele?
Non ho pensato a una visione manichea in bianco e nero, ma certamente Lorenzo è un puro, uno che non ha soverchi legami con la vita organizzata da restarne compromesso, mentre l’altro è totalmente al servizio di se stesso: tutti i suoi disegni sono finalizzati alla sua prospettiva di potere, alla ricerca ossessiva di attenzioni: una figura di politico che vedo insomma abbastanza realistica.
Per disegnare la figura del padre ha tenuto presente il suo?
Io non nascondo mai il fatto che tutto quello che scrivo mi riguardi direttamente e nasca da esperienze personali. Ho come deciso già in partenza di escludere ciò che non concerne quanto conosco, perché ho bisogno di scrivere di persone, luoghi, attività di rapporti che ho sperimentato direttamente. Quindi anche nella figura del padre di Lorenzo e Fabio è chiaro che molti elementi vengono dal rapporto con mio padre.
E dunque Lorenzo è lei: stesso eremitaggio, stesse passioni, stessa visione della vita...
Il mio non è un diario in pubblico, ma è vero che ho attinto moltissimi elementi dalla mia vita, ma la vita di Lorenzo solo in parte riflette la mia.
Quante stesure ha avuto questo romanzo? Mi sembra molto lavorato.
Tante. Come minimo quattro, in più c’è il lavoro continuo di sottrazioni, aggiunte, rimaneggiamenti. Certo, per avere un rapporto sano col tuo libro a un certo punto devi dire basta perché puoi continuare a riscriverlo all’infinito.