giovedì 19 ottobre 2006

Luigi Meneghello: il mio costrutto autobiografico



Pochi autori come Meneghello hanno saputo integrare il microcosmo di un’umanità colloidata in un paesino entro una cosmogonia che assurge a modello universale: un risultato che può essere venuto all’autore vicentino dalla sua doppia natura di italiano ed europeo, diviso tra Malo e Londra, ma che è viemmeglio frutto della sua vocazione a rendere lo stile letterario strumento di interpretazione della realtà.
Realista fino alla registrazione mimetica, Meneghello ha però mutuato dalla sfera del sogno, com’è stato in Pomo pero, la capacità di duplicare la sua forza espressiva, trovando proprio nel gioco del doppio il principio giustificativo di una personalissima eppure oggettiva visione del mondo. 
Diviso tra due nazioni amate entrambe; disputato da due penchant, onirismo e realismo; tirato da un lato dalla fireness della lingua scritta, l’italiano, e dall’altro dalle suggestioni del dialetto parlato, il vicentino; spinto a preferire una volta il registro testimoniale autobiografico e autocommentativo e un’altra il tono documentativo che rimanda alla guerra e alla Resistenza; sempre comunque sospeso a mezzo cielo tra paese e mondo, Meneghello ha saputo trovare un punto di equilibrio al quale ha legato la sua vena sperimentalista con esiti che i novatori del Gruppo 63 (l’anno di edizione di Libera nos a Malo avrebbero ben accolto nel proprio statuto se non avessero voluto vivere il tempo di una sola breve stagione: giacché proprio Libera nos a Malo, romanzo-saggio costruito con materiali presi da nuove fucine narratologiche, si costituisce come prova che ancora oggi non ha perso smalto né originalità né forza di durata. 
Proprio per questa sua natura ambulacrale, Maria Corti si chiedeva se Meneghello fosse un fantasma mentre Giulio Ferroni parla di «caso»: di chi più guarda dentro se stesso e più riesce a spiegare il mondo innestandolo sulla koiné alta di una lingua forgiata da uno stile di forti evocazioni letterarie e alimentata da una pronuncia che il curatore del Meridiano Mondadori, Giulio Lepschy, riconduce all’italiano popolare commisto al dialetto e al bellettrismo lessicale. 
Vale per il dialetto la regola che Meneghello trova nell’inglese, dove la frase, sia orale che scritta, è sempre già pronta mentre in italiano bisogna costruirla: così, anche nella parlata maladense la frase appare assoluta e immutabile, un cab da trasportare sul carico della lingua scritta, solo entro la quale è possibile operare nuove forme di espressione. 
Nello svolgimento della sua vicenda letteraria si va da un massimo di presenza del dialetto verso un suo sempre più affievolirsi sino ad arrivare a Le carte dove è pressoché scomparso. È un processo voluto?
È soltanto perché il primo blocco espressivo che ho scritto era sul mio paese, sull’Italia dei paesi, che allora era l’Italia dialettale, la spina dorsale dell’Italia che ho raccontato senza rendermi conto che stavo registrando qualcosa che era immediatamente comprensibile in quasi ogni regione d’Italia. Il dialetto è venuto fuori semplicemente per il fatto che parlavo del mio paese, non per un fatto specificamente linguistico. In seguito ho sentito molto meno il bisogno di esprimermi in dialetto. Nel mio secondo libro, I piccoli maestri, mi ricordo che avevo il proposito esplicito di scrivere senza «divertirmi» troppo.
In realtà a ben vedere, in Trapianti, che è forse l’ultimo suo testo edito, abbiamo una grande eccezione: un ritorno alla vecchia maniera dialettale.
Ormai ho una età in cui mi posso permettere quasi tutto. Io sono molto difficile come padrone di me stesso e non mi concedo facilmente il permesso di fare delle cose. Non nego che sono stato molto contento di sentirmi in grado di fare questo strappo, Trapianti, che è stato davvero un piacere.
Quando furono pubblicate le Opere Rizzoli, il primo volume nel ’93 e il secondo nel ’97, lei suggerì la scelta dei titoli da includere, tant’è che l’intera opera si distinse in due polarità, i libri dedicati al paese e quelli che costituivano la sua materia civile. Oggi, per i Meridiani, c’è stato anche il suo intervento?
Non è stato un intervento diretto ma di consenso alla persona che ha curato l’edizione e che stimo moltissimo, Giulio Lepschy, collega e amico di cui ho grandissima considerazione per il suo rigore filologico, per la finezza sottesa che non ostenta mai. Quando ha avuto l’incarico, nel giro di qualche giorno ha proposto anzitutto di abbandonare la divisione per materia. Poi ha pensato di affidarci solo ad opere integrali, senza antologizzazioni o spezzettamenti. Terzo, poiché avevamo un numero di pagine limitato, ci siamo accontentati dei primi quattro titoli, che sono i miei libri degli anni ’60 e ’70. E dovendo badare solo a opere intere ho pensato d’istinto ad individuare i due libri di saggi che comportano sì ripetizioni, ma comprendono un po’ le cose che ho scritto dopo il ’70. 
Perché è rimasto fuori sia in Rizzoli che in Mondadori Il dispatrio? Forse perché ritenuto un po’ troppo rococò? 
Assolutamente no. È stato proprio perché bisognava scegliere, una volta deciso come muoverci. Anche l’altro libro sul dopoguerra, Bau-sète è piaciuto molto, ma ho capito che avendo soltanto 1800 pagine, di cui 1600 per i testi e il resto per gli apparati, bisognava sacrificarlo. 
In realtà sarebbe stato impossibile includere Le carte, che pure sono una summa del suo lavoro.
Ci sarebbero voluti non due ma quindici volumi.
Comunque si può parlare della sua opera nel senso di una autobiografia complessiva sia per quanto riguarda la prima modalità che la seconda.
C’è certamente una spinta autobiografica, che è una autobiografia filtrata, di un certo tipo, finché non diventa creativa al suo interno. La materia autobiografica di solito non prende forma, ma può succedere che invece ci riesca. E in quella forma tutto ciò che ho scritto ha un costrutto sicuramente autobiografico.
Fino a che punto anche l’opera saggistica può rientrare nella chiave autobiografica?
Perché si tratta di saggi concepiti sempre come una specie di mistura. Mi sono mosso in sostanza tra impulso narrativo e impulso critico. Di solito si tratta di episodi singoli che sembrano staccati ma che invece, messi insieme, legano tra loro. Mi vengono in mente le leghe metalliche. I miei vari saggi sono quasi tutti dello stesso tipo: si comincia spesso parlando di una delle opere pubblicate e poi, a mano a mano che si va avanti, mi accorgo che sto componendo qualcos’altro. Nel Meridiano, per esempio, c’è una lunga cronologia, molto ampia, esauriente, grazie alla bravura non mia ma di Francesca Caputo. Ebbene mi sono accorto che per raccontare di me c’era per Francesca la necessità di mettersi in una prospettiva obiettiva, biografica, quasi anagrafica. E lei, brava e scrupolosa com’è, è venuta più volte da me, da Milano, con la pazienza infinita che hanno le donne e le persone brave, a controllare certe cose, ad accertarsi che non avessi obiezioni da fare su certi dettagli. E fin dalla prima volta mi sono accorto che l’approccio era di tipo biografico sobrio. Naturalmente io aggiungevo qualcosa e la Caputo, che ha scrupolo filologico, riportava tra virgolette anche un solo aggettivo che avevo detto io e che non si sentiva di avallare anche se lo approvava. 
Vuole dire che in sede di stesura di questa cronologia lei ha avuto un’altra acquisizione della sua vena autobiografica?
Sì, è stato nel corso dell’ultima estate. Per fortuna non abbiamo avuto il tempo materiale perché mi sono accorto che ad un certo punto stavo per mettermi a riscrivere la mia biografia. Francesca diceva che ad un certo punto avremmo dovuto rimandare il lettore alle opere di Meneghello, perché quella, diceva Francesca, è la cronologia migliore. Allora io ho suggerito di fare, nello stile di Borges, una bella cronologia di 1600 pagine, le stesse che sono poi quelle del testo, e pubblicarla due volte, in due volumi separati, una come cronologia e l’altra come testi, identici, come il "Don Chisciotte" di Borges.
Oltre a queste due polarità, un’altra sua biografa, Ernestina Pellegrini, trova una terza maniera, quella del professore, con i suoi attrezzi filologici. Ma non ce n’è forse anche una quarta, quella che rimanda a Le carte, che in fondo è il suo "Zibaldone"?
Forse ha ragione. Ho iniziato a scrivere nel momento stesso in cui ho smesso di fare altre cose. Da quel momento ho separato ciò che stavo scrivendo per pubblicarlo, anche con ripensamenti, rifacimenti, fatiche e difficoltà, da quello che stavo scrivendo per me come diario intimo. Questo materiale non era destinato alla pubblicazione ma ho finito per farlo soltanto dopo che, anche per l’appoggio generoso e comprensivo dell’editore, ho potuto disporre del tempo per riscrivere tutto, parola per parola, nello stile anni ’90, nel modo cioè in cui capita di scrivere in tempi recenti. Il mio iniziale diario, quello originale e non riscritto, è conservato al Fondo di Pavia.
Da settembre 2004, dalla scomparsa cioè di sua moglie che era un po’ la sua suggeritrice occulta, la sua compagna di scrittoio, lei non ha scritto più niente. Perché?
Non c’è un perché. Ci sono questi sbilanciamenti nella vita. Comunque ho continuato a scrivere ad intervalli delle conversazioni per conferenze pubbliche e con un certo impegno. In fondo non ho mai perso il mio difetto giovanile che è quello di impegnarmi nelle cose che faccio. Inoltre ho pubblicato su "Il Sole 24 Ore" una serie di scritti che ho chiamato "Le nuove carte". Impegno che non ho abbandonato ma che, per la verità, si è un po’ rarefatto per ragioni personali. L’impegno che ho preso con me è di intervenire una volta al mese. Ma comunque ho continuato a scrivere per conto mio. Purtroppo, passando gli anni, invece che alleggerirsi il peso del lavoro che ci si sente di dover fare va aumentando, tant’è che ho moltissimo da fare per attendere alle mie cose: ci sono nuove pubblicazioni e le nuove edizioni richiedono sempre delle attenzioni che una persona troppo scrupolosa come sono io tende a profondere. La Bur sta ripubblicando tutta la mia opera con nuove introduzioni e nuovi apparati e sono sempre lì a prendermene cura. E infine è a uno stadio avanzato di preparazione qualcosa che uscirà da Rizzoli entro l’anno prossimo. Sarà come sempre un blocco di materiali autobiografici nell’intonazione, tra il narrativo e il saggistico, sul modello de Le carte.