lunedì 3 settembre 2012

La maledizione del sicilianismo


Se Musumeci, designato dall’autonomista Micciché e accettato dal superautonomista Lombardo, ha perso entrambi dalla sera alla mattina, ciò si deve al suo spirito anti-autonomista.
Non per un caso la rottura della grande macchina elettorale che era stata costruita attorno a lui si è avuta un paio di giorni dopo la dichiarazione resa dal candidato catanese e uscita sui giornali del 23 agosto. Vale la pena rileggerla: “Il progetto che rappresento non è autonomista, perché oggi la gente è stanca di sentire parlare di autonomia, ma è legato all’identità e al territorio. Nessuno più di me può parlarne a ragion veduta, visto che nel 2005 lasciai An proprio perché non voleva regionalizzarsi. Ma è sbagliato criminalizzare i partiti nazionali: l’importante è che, all’interno della proposta che stiamo portando avanti, mostrino concreto interesse per la questione Sicilia”. Cos’altro dovevano sentire Micciché e Lombardo per sfilarsi? 
Ma Musumeci probabilmente non voleva riferirsi all’autonomismo bensì al sicilianismo, distinguendo tra due valori completamente diversi ma usati come sinonimi. Anzi, negli ultimi giorni tutti i leader regionali non fanno che parlare di sicilianismo nell’accezione positiva di affermazione dello Statuto speciale e quindi inneggiando all’ideale dell’autonomia. Questa confusione sta ingenerando grossi equivoci tra chi sa cosa significhi e cosa è il sicilianismo e chi invece non lo sa e pensa che sia la stessa cosa che dire autonomismo. Per costoro chi difende le ragioni dei siciliani, cioè gli autonomisti, sono per ciò stesso dei sicilianisti. Che vuol dire nemici della Sicilia. Cerchiamo di capirci bene.
Quando Santi Correnti, fiero cantore degli ismi siciliani, imputava i mali della Sicilia al prezzo troppo alto del biglietto aereo non diceva cosa diversa dal compagno d’auto di Johnny Stecchino secondo il quale è il traffico automobilistico il vero problema dell’isola. Esaltando l’eccezionalità della natura dei siciliani e riaffermando la sindrome del vittimismo di massa (gli elementi costitutivi del sicilianismo secondo Nando Dalla Chiesa), entrambi alla fine non additavano che una causa esterna, naturalistica, e non reiteravano perciò che una «questione siciliana» la cui risoluzione compenetravano a un adempimento atteso oggi da 66 anni: la piena ottemperanza cioè da parte dello Stato dello Statuto speciale. 
Si tratta di un’educazione comune che ha distorto un fiero ideale “nazionale” fondato sull’aspirazione a una maggiore autonomia in un peccato del più vieto regionalismo, il sicilianismo appunto: per isolare il quale Sciascia suggeriva l’idea di «sicilitudine», sottesa a un modo d’essere dei siciliani legato «a particolari vicissitudini storiche e alla particolarità degli istituti» e quindi frutto di una dinamica del divenire storico e del suo consolidato politico che può ben giustificare un habitus genetico e antropologico di confessa inferiorità cui però si è inteso rispondere - ecco l’errore - con un atteggiamento remoto di malsana ipertrofia del noi: coscienza per la quale può semmai valere la nozione di «sicilianità» quando però il riferimento insistito al dato di natura anziché storico non ne postuli ragioni tali da rialbeggiare ancora una volta il sicilianismo. La grande tentazione. Per esprimerci in altre parole: l’autonomismo è il portato di un sentimento nazionale nato sui rivolgimenti storici, mentre il sicilianismo è il cascame degli stessi sentimenti distillati dalla coscienza di essere per natura, per destino, da un lato eccezionali e dall’altro vittime. 
A motivo proprio dei rivolgimenti della storia e in forza dell’influenza delle istituzioni, lo spirito autonomistico era nato come espressione della sicilitudine, radice cioè delle migliori speranze, ma avendo voluto vedere nella storia una maledizione eschilea e nelle istituzioni un cavallo di Troia del potere statale, ecco che l’autonomismo sano si è guastato nel più corrivo sicilianismo, che è divenuto forse il carattere distintivo dei siciliani e quindi il male peggiore quando è invece ritenuto una coccarda.
In grazia dell’autonomismo, ma professando in realtà il più testardo sicilianismo, sono nati – ancor prima dell’Mpa e di Grande Sud: perché, quando arriva, l’orgoglio autonomista trova già l’alibi sicilianista, che riconduce a Verga e Capuana – logiche politiche il cui verbo, rilanciato sulle insegne del più intangibile dei valori siciliani, il sacro Statuto, è servito per vestire il bianco dell’innocenza e imputare allo Stato mancanze e ogni qualsiasi altra colpa. L’impasse dell’aeroporto di Comiso è lì a dimostrare che, proprio per via dell’autonomismo, non solo la Regione può accusare lo Stato ma anche Roma può lavarsi le mani. Diciamolo chiaramente: la legittima iniziativa autonomista diventa posa sicilianista quando la protesta per gli inadempimenti statali (l’aeroporto, il porto, l’autostrada…) assume le forme di una rivolta sostenuta attraverso le marce collettive, i comizi, i digiuni di protesta e gli incatenamenti. Tutte cose che nel Ragusano sono nell’agenda politica quotidiana. Sicché proprio in provincia di Ragusa il sicilianismo sta dando il peggio di sé nello stesso momento in cui chi lo esercita crede di osservare il più genuino autonomismo. Stando così le cose, l’equazione sicilianista è questa: non possiamo applicare lo Statuto perché è in parte rimasto sulla carta, ma veniamo isolati perché abbiamo lo Statuto. 
Epperò dalla sua adozione non si è avuto un solo reale vantaggio per i siciliani in termini di defiscalizzazione, maggiori oneri alle industrie estrattive, royalties sul petrolio, abbassamento dei prezzi, servizi pubblici in genere… Al contrario è servito per costituire privilegi, avanzare pretese, esibire passaporti speciali, chiamare “onorevoli” quanti altrove sono meri “consiglieri”, attribuire il rango di ministro al presidente divenuto governatore, offrire alla mafia un principio di autodeterminazione, rinverdire insomma mai dimenticati fasti e usi spagnoli. 
Eppure, l’occasione per fare valere le ragioni dell’autonomia intesa come particolarità storica e quindi in chiave di sicilitudine si è avuta, ma è stata mancata: quando nel 2001 il centrodestra, quindi un’area omogenea, elesse 61 parlamentari, la Sicilia si trovò nella possibilità reale di gettare la spada di Brenno sul tavolo del governo nazionale. Ma non lo fece. Perché? Perché il credo autonomista diventa un’eresia fuori della Sicilia; perché quanti inneggiano all’autonomia siciliana e se ne fanno paladini al di qua del Faro diventano nulla più che peones a Roma, dove trovano tutt’altra realtà e un diverso rapporto di forze. Ogni settimana i nostri parlamentari lasciano gli aeroporti di Palermo e Catania con il petto gonfio di sicilianismo e arrivano a Roma o a Strasburgo col fiato corto dei più schietti unitaristi: a rendersi magari conto che quel che manca in Sicilia è proprio una felice ordinarietà che avvicini finalmente Roma e, nella riposante e rasserenante qualità di regione per nulla speciale, ci faccia tutti più normali. E’ l’eccezionalità e la coscienza che abbiamo di essa e del rincrescimento che non ci sia riconosciuta statutariamente (il sicilianismo in una parola) a renderci non diversi né svantaggiati ma distanti e perciò estranei. Finché coltiviamo insieme valori contrastanti assisteremo sempre a strappi come quello tra Musumeci e gli autonomisti e continueremo a sentirci il sale della terra pur essendo terra senza sale. Gli autonomisti farebbero bene a smettere di dirsi sicilianisti intendendo dichiararsi paladini della Sicilia, perché di sicilianismo, l’abbiamo visto, si muore. E i sicilianisti farebbero bene a gettare la maschera e ritornare nella peggiore storia siciliana dove li ha sgamati Sciascia.