lunedì 10 settembre 2012

Una domenica senza calcio


In questo week end ho visto gente spaesata, come privata di qualcosa di essenziale. Persone che conosco non hanno avuto remora alcuna ad ammettere che la mancanza del calcio li rende inquieti e svuotati di interesse. Una domenica senza calcio è per loro una domenica estiva senza avere però l’estate.
D’inverno e con il calcio, la domenica è fatta di ritualità, di attese, di preparazione. Non conta il fatto che il calcio riposi ma che loro siano costretti a fermarsi, senza i commenti del dopopartita in ufficio, i dibattiti interminabili, la lettura dei giornali. 
Mi sembra la stessa condizione in cui dice di essersi venuto a trovare un noto critico letterario dopo aver letto la trilogia di Stieg Larsson ed essere rimasto senza nulla da fare: «E ora cosa farò nel resto della mia vita?». C’è un eccesso nel procurarsi e mantenersi un piacere - sia esso il calcio o una serie romanzesca - che suona come falso, spropositato, fuori dalle misura delle cose. La figura logica più appropriata di un tale gusto è l’iperbole: si apprezza una cosa molto più del suo valore e si finisce per ritrovarsi in una dimensione irrelata di inautenticità.
Mi sono sempre chiesto perché il calcio (che a me pare un mondo popolato di persone tutto sommato ignoranti e di ragazzoni che non fanno che sputare in pubblico) riscuota tanto favore presso ogni ceto. E mi sono anche chiesto come sia possibile, parimenti, che critici come D’Orrico vedano dei capolavori in ognuno dei romanzi che accettano di leggere. Una spiegazione trova ragione nella scelta che si opera: chi sceglie compie una selezione e nello stesso tempo riconosce all’oggetto scelto una qualità che egli stesso attribuisce a se stesso. Elevando il romanzo scelto a una dignità superiore eleva quindi se stesso a una sfera esclusiva, distanziando sé e l’autore dal mondo comune della massa, in un’orbita inaccessibile e inarrivabile. 
Il critico fa di un autore un soggetto venerabile e di se stesso un suo sacerdote. Accende una luce abbagliante sull’autore e vi si accosta per vivere del riflesso di quella luce. Ne fa una persona che gode della stessa considerazione messa in capo oggi ai ricchi come un tempo agli aristocratici, una considerazione che integra uno stato di inattingibilità e di ineffabilità, fonte infine di un culto della personalità che è una malattia seria. 
Alla stessa sfera appartengono i calciatori, il cui mondo se fosse povero e fatto di dilettanti verrebbe visto dal pubblico calciofilo troppo vicino a quello comune, il proprio, e quindi di infimo grado. Il romanzo storico e d’appendice spopolava perché offriva la possibilità di conoscere un mondo, quello dei principi e delle corti, delle grandi famiglie ricche e delle magnificenze, sognandolo e fantasticando di farne parte. Il calcio offre anch’esso un distintivo di appartenenza perché l’appassionato di calcio compie pur’egli una scelta e si trasforma in tifoso. Che, come il critico letterario, eleva la squadra, i suoi beniamini e se stesso a una dignità distinta e superiore. 
Ma né il critico diventa mai l’autore né l’appassionato diventa calciatore: così come il povero non diventa ricco e il contadino non diventa principe. Epperò anziché a uno scontro di ceti e di mondi diversissimi e inconciliabili, assistiamo in tutti i casi a strette congiunzioni, a processi di assimilazione se non di identificazione nei quali le parti elettive si prestano ad assumere una posizione subordinata e quelle elette lucrano i profitti e locupletano la loro condizione. 
Ma c’è chi ama il calcio senza tenere per alcuna squadra, conformandosi quindi a quei critici letterari che leggono per passione e che non sanno indicare né autori né libri né generi preferiti. Non usano mai l’iperbole, non vedono dappertutto capolavori e capiscono che possono fare a meno di leggere ogni giorno, così come l’appassionato di calcio si rende conto che può vivere una domenica senza partite stando comunque bene e procurandosi altri piaceri. 
Contro il credo dell’appartenenza invale dunque il principio di inappartenenza che libera dalla schiavitù di un dominio. Così come giova al tifoso essere un semplice appassionato di calcio, allo stesso modo rende un buon servizio al suo stesso ruolo chi preferisca una sana e corretta superficialità e varietà a una accanita e orgogliosa specializzazione. Nella critica letteraria come anche nella vita.