mercoledì 14 maggio 2014

Questo triangolo no, non l'avevamo considerato


Ci sono stati uomini politici che, a cavallo tra prima e seconda repubblica, hanno lungamente tenuto la scena in funzione di leader. Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti più degli altri.
Esponenti ed interpreti di due antitetiche visioni dell’Italia e del mondo, provenienti entrambi da esperienze che li hanno visti agli antipodi estremi, figli della piazza e regolari di partito, sono stati travolti dalle vicende che hanno segnato l’affermarsi dell’attuale triangolo di forze alle cui cuspidi si ergono oggi Berlusconi, Renzi e Grillo, cioè un cummenda con il wit della barzelletta salace e il vizietto satiriaco, un rampollo della Firenze rampante che posa a progressista e un comico di palco che a furia di épater les bourgeoises è saltato in tribuna e ci ha preso gusto chiedendo voti anziché biglietti. Al loro confronto Fini e Bertinotti appaiono dei giganti, così come quasi tutti gli uomini politici della prima repubblica. Non c’è un discorso degli attuali maggiorenti che meriti di essere lasciato per iscritto e tramandato. Nessuno di loro tre ha scritto un libro né risulta sia avvezzo a leggerne. Il loro linguaggio e i loro modi espressivi sono analogici, privi di ogni citazione colta, vuoti di una qualche ricerca semantica, di una costruzione sintattica che sia degna di ascolto. Un abisso rispetto ai Fini e ai Bertinotti che ricordiamo ancora nei salotti televisivi volare sempre alto, portare il dibattito sul piano delle idee, dei valori e delle ideologie, ma anche rispetto agli Andreotti, ai Fanfani, ai Cossiga e ai Craxi, consegnati da Tangentopoli alla storia come reietti e reprobi ma nel tempo riemersi poi a fare la differenza con i nani del presente. Come dire che al peggio non c’è fine.

Ma come i leader del passato sono stati figli del loro tempo, così quelli attuali sono il frutto naturale del nostro, sicché imputabili non sono gli uomini politici specchio del tempo ma il tempo stesso in cui quegli uomini hanno operato e operano. Nessun uomo politico può in realtà essere diverso dalla società che rappresenta, come un giornale non può essere migliore o peggiore della realtà che lo esprime. Berlusconi, Renzi e Grillo – la volgarità, la superficialità e l’estemporaneità al potere: non nell’ordine ma in cumulo – sono quello che ci meritiamo come classe politica: un retorica stantìa e stenterella, la politica ridotta a dialettica, la coerenza in opportunismo, la storia in acqua passata e l’ideologia fatta oggetto di apostasia. Il distacco soprattutto dei giovani dalla politica, tanto maggiore quanto si accresce lo spazio che giornali e televisioni continuano a darle, con la conseguenza che precipitano le vendite e gli ascolti, è la conseguenza dell’abbattimento dei valori ideologici, l’esatto contrario della loro eccessiva esaltazione negli anni di piombo. Bertinotti e Fini, che da quella temperie venivano, sono state le prime vittime della nuova ondata, quasi una ananké, che della politica intesa come credo ha fatto una prammatica di ecolalia, cerretanismo e vuote forme. 



Il nostro tempo, segnato da picchi di astensionismo alle urne, da gurgiti di attrazione per l’impolitica, è perciò davvero la causa del triangolo dell’insipienza o forse è esso stesso l’effetto indesiderato frutto di una generazione di politici la cui distanza con le mafie e le zone buie della finanza affaristica e criminale si è sempre più ristretta? In presenza di questi fenomeni contingenti così negativi è generalmente la stampa ad ergersi a grande censore sentendosi chiamata ad osservare la sua funzione più alta, quando quella istituzionale della presidenza della repubblica si appiattisce miseramente al livello del potere esecutivo e legislativo. Ma la stampa si è lasciata irretire nello stesso spinoff di pensiero flaccido, ha accolto lo stesso linguaggio della politica, è diventata impulso per una esasperazione della logica della promessa, dell’accusa, del chiacchiriccio, dei discorsi infantili e sgrammaticati che sono gli istituti dell’attuale apparato. Diventa sempre più faticoso e fastidioso seguire dibattiti televisivi dove ad ogni momento è quasi spontaneo riportarsi al tempo in cui, non molto tempo addietro, sedevano Fini e Bertinotti al posto dei ganzi imberbi e delle belle signorine di oggi: a parlare di politica. La rabbia che rode Cacciari quando vi partecipa, tentato di alzarsi ed andarsene, è la nostra anche se forse non è la stessa. Ma certamente nasce da un senso di vergogna e di ammissione o attribuzione di colpa: quella di non aver fatto niente perché finissimo nell’attuale stato di disgrazia.