La Sicilia fotografata dall'astronauta Parmitano |
Articolo uscito su la Repubblica di Palermo il 3 marzo 2015
Quando, per definire il carattere dei siciliani, Camilleri dice a Umberto Rosso, in Una birra al Caffè Vigata, che la parola “sicilitudine” non gli piace, dopo aver detto anni prima che nemmeno la capisce (auspicando perciò che ne sia trovata una più appropriata - e comunque respingendo il significato sotteso di autocommiserazione e lamentazione), non fa che confermare come al fondo del clima di scontro che avvelena i rapporti Stato-Regione, ciclicamente acuti quali sono tornati ad essere nelle ultime settimane, ristagni una questione (un tempo detta meridionale) mai davvero risolta: se cioè l’iniziativa di Palazzo d’Orleans nei confronti di Palazzo Chigi sia di tipo risarcitorio oppure rivendicativo, ovvero se sia una pretesa o un diritto. Pesa sull’ambivalente atteggiamento la mancata definizione di una terminologia che, confondendo sicilitudine, sicilianismo e sicilianità in una guazza buona per ogni occorrenza, mette anche il governo regionale nella posizione di poter richiedere assistenza e forniture a Roma in nome di una condizione, quella siciliana, invero indistinta ma rappresentata come di eccezionalità perché dedotta dall’insieme delle tre accezioni, quasi che sicilitudine, sicilianismo e sicilianità fossero, al di là dei diversi significati, mezzi di persuasione e titoli di credito. Una condizione che è stata compresa nel modello di sicilianismo il cui senso Nando Dalla Chiesa riferiva a un’ipertrofia della coscienza collettiva stinta in una sindrome di vittimismo di massa, quel vittimismo proprio in base al quale uno storico estemporaneo e tenacemente sicilianista quale Santi Correnti (sulla scia di altri ideologi come Massimo Ganci) poteva vedere una causa dei mali dell’isola persino nell’alto costo dei biglietti aerei.
Dalla Chiesa riconduceva quella polarità antitetica a uno stato di consapevolezza dei siciliani inteso ad affermare una condizione di grandezza innata, cioè avuta per natura: somma di valori questa già disposta da Giuseppe Borgese in un ordine più sistematico: “Il complesso di inferiorità e lo spirito di grandezza, intrecciati nel destino storico e naturale dell’isola, si manifestano, quasi senza eccezione, nella psiche individuale”. In sostanza Borgese da un lato trasfondeva nella sfera individuale un connotato sociale e da un altro aggiungeva al dato di natura anche un’implicazione storica, concependo il destino dell’isola come frutto non solo della natura ma anche del divenire della storia. E’ comunque proprio in forza di questa dualità concentrica, tale da mutuare in ogni siciliano la coscienza di aver subito un torto dalla storia con un sentimento di superiorità genetica, che ciascun governo regionale continua ad alzare la voce e gridare all’ingiustizia nel momento stesso in cui agita lo Statuto e ne chiede la piena applicazione.
Tale ambiguo “modo d’essere” chiamato sicilianismo, per cui la natura debba prevalere sulla storia, pur a costo di determinare una considerazione spregiativa sul conto dei siciliani perché arroganti e tracotanti, trova un principio normativo, quasi una presa di carico, in quel “pirandellismo di natura” che nel suo spirito causidico, sofistico, moralistico e filosofeggiante, bagaglio senz’altro del Pirandello più speculativo, legittima il partito di contrappunto votato a un sicilianismo recidivante del quale finisce per pastorizzare il suo significato di privilegio.
E proprio di privilegio parla nel 1969 Sciascia quando prova a ridefinire il carattere dei siciliani in quel capitolo incipitario de La corda pazza dove introduce il concetto di sicilitudine intendendo liquidare quello di sicilianismo. Sennonché i privilegi di cui godrebbero i siciliani, primo fra tutti lo Statuto speciale, non sono per Sciascia quelli derivati dal sicilianismo, cioè avuti per natura, ma gli altri concessi dall’esterno, dalle “potenze dominanti” fra cui lo Stato, perché servano “a dare illusione di indipendenza ai siciliani”: che evidentemente quella qualità ambiscono proprio in ottemperanza al loro sentimento sicilianista.
Così Sciascia, sostenendo per questa via il fallimento dell’autonomia, può attribuirne la causa “al fatto che è stata intesa e maneggiata come un privilegio, una franchigia, che lo Stato concedeva alla classe borghese-mafiosa”. Una concessione che “ha fatto insorgere quella confusione e quelle remore un tempo coagulate negli istituti giuridici e, insieme, tutti gli aspetti e le manifestazioni deteriori della natura dei siciliani”. Trovandosi dunque a discriminare la “natura dei siciliani” e quindi il sicilianismo, Sciascia subito dopo avverte, forse senza rendersi conto di schiudere un nuovo orizzonte: “E si intende che usiamo il termine natura non per dire natura, ma per indicare il carattere che risulta da particolari vicissitudini storiche e dalla particolarità degli istituti”. Per Sciascia quindi la “natura dei siciliani” coincide con il portato dei rivolgimenti storici e con il consolidato degli istituti innanzitutto giuridici.
Le cose a questo punto però si complicano perché proprio nel capitolo intitolato “Sicilia e sicilitudine”, che conosciamo come fondativo dell’idea di sicilitudine, concetto cui riferiamo il primato, al contrario che nell’ambito sicilianista, della storia sulla natura, Sciascia non scrive mai la parola “sicilitudine” se non alla fine attribuendola a “uno scrittore siciliano d’avanguardia”, ma soltanto come sinonimo di “sicilianità”.
Se le cose stanno allora così, la sicilitudine si configura come una categoria sociologica e antropologica che ha fatto più strada del termine al quale si è sostituito, dandosi un significato che dovrebbe invece avere quello di sicilianità se non fosse che per sicilianità intendiamo non la proprietà naturalistica né il fattore storico ma l’elemento geografico, giusto il teorema di Sciascia secondo il quale “alla base di tutto c’è ovviamente il fatto geografico” (“fatto” scrive Sciascia: a indicare tuttavia un’ingerenza della storia), fatto geografico che è la scaturigine della vulnerabilità dell’isola e quindi dell’insicurezza dei siciliani.
Epperò era tutto chiaro, cioè tutto confuso, all’indomani dell’autonomia, quando in Che cos’è questa Sicilia? e nel pieno del movimento indipendentista Sebastiano Aglianò spiegava l’oraziana concordia discors ingaggiata con la penisola alla luce di un’antitesi irrisolvibile tra “l’eccessivo livellamento politico e amministrativo”, quindi l’avvicinamento all’Italia, e “un distacco netto, l’effettiva indipendenza”. Per Aglianò i siciliani “non possono rinnovare se stessi se non sentendosi vieppiù siciliani”, ricadendo così nella trappola del sicilianismo, e devono usare l’autonomia “in modo che non serva da barriera contro il progresso, specialmente sociale, dell’Alta Italia”, cioè in chiave di sicilianità.
Non c’è chi non veda infine come non si esca da questa palude, né si potranno raffreddare le tensioni con lo Stato, se prima non sarà stabilito cosa si vuole intendere, smontata la lusinga della sicilitudine, per sicilianità e sicilianismo e come maneggiare quindi lo Statuto.