Perché Roberto Helg, l'ex presidente della Camcom di Palermo arrestato per corruzione, si è rivolto in dialetto a Santi Palazzolo il giorno della consumazione del reato, pur potendogli fare pesare, parlandogli in italiano, un condizionamento che, frutto di una più elevata statura culturale, avrebbe certamente indotto nella sua vittima, insieme con la scelta di riceverlo in una sede istituzionale, uno stato di maggiore soggezione?
Nei modi di Helg il pasticciere ha ritenuto di scorgere “movenze da mafioso”, tanto più per averlo sentito esprimersi in siciliano, ma forse si è ingannato circa il reale proposito di Helg. Il quale, se si è servito di ampie locuzioni dialettali, con un marcato accento palermitano che nei suoi interventi pubblici badava però a mitigare al massimo, ciò ha fatto per stabilire con Palazzolo, anche con l’uso ripetuto del “tu”, un rapporto di correità o di intesa, un pactum sceleris, fondato su una parlata condivisa, il dialetto essendo sentito soprattutto in Sicilia come una lingua intima e confidenziale.
Il cantautore comisano Salvatore Adamo, che conosce il siciliano di sessant’anni fa, ha rivelato che non lo parla se non con amici fidatissimi, sembrandogli impudico farlo con sconosciuti ancorché siciliani. In realtà Helg si è comportato con Palazzolo alla stregua di ogni siciliano che, reputandosi socialmente superiore al suo interlocutore, gli parla in dialetto non per elevarlo alla propria altezza ma per abbassarsi alla sua, facendo così mostra di una corriva indulgenza che in effetti maschera una più crassa albagia.
Essendo il siciliano la lingua del sentimento e l’italiano quella della ragione, ufficiale e protocollare, Helg ne ha fatto un misto mutuando da Sciascia quel “dialetto borghese” che è il solo ammesso dallo scrittore e che riesce il più appropriato in rapporti indistinti e anguillari dove il sottinteso valga più del pronunciato, il gesto più del parlato e le intenzioni esitino un giro di iterazioni. Quando Helg, statuendo la sostanza dell’accordo, dice in italiano “Questo è il quadro”, dopo averne in siciliano spiegato i singoli punti, decreta una manifestazione di volontà alla quale Palazzolo risponde ricorrendo anch’egli al siciliano come per esprimere un’accettazione. Un gioco di ammicchi e di inganni dunque, sotteso alla rappresentazione scenica di uno schema le cui sottili sfumature soltanto i siciliani possono comprendere appieno. Non mancano i casi.
Interrogando un capomafia, l’ex giudice Giuseppe Di Lello lo bloccò appena il boss cominciò ad esprimersi in dialetto: «Parliamo italiano!” gli ingiunse, intendendo impedire che nascesse un sentore di confidenza. Un altro boss, Nick Gentile, conosciuto personalmente da Andrea Camilleri, invitò un questore che non ricordava il suo nome a chiamarlo “zu Cola”, facendolo infuriare a tal punto da finire al confino.
Proprio Camilleri, che del dialetto ha fatto la sua cifra letteraria, lascia che il commissario Montalbano parli in siciliano solo con i collaboratori più vicini, Fazio e Augello, ma vuole che usi la parlata vigatese anche come un’arma: in “Le ali della sfinge” fa crollare un sospettato quando comincia a parlargli proprio in siciliano. Come Camilleri, anche Roberto Helg sapeva che, parlando in vernacolo, avrebbe blandito e intimidito allo stesso tempo Palazzolo, tanto da apparirgli nel sembiante dell’amico mediatore e del temibile mafioso.
Sfumature si è detto, in qualche modo anch’esse di grigio. Nel “Gattopardo” il principe Salina parla ai villani in dialetto ma pensa in francese quando è ricevuto dal re di Napoli che gli si rivolge in una “sbarazzina” parlata partenopea. Ogni grado richiede perciò i suoi modi di espressione come anche di riflessione. Angelica, la bella vagheggina divenuta una Salina, pensa in siciliano quando si dice: “Noi avremo il furmento e questo ci basta”.
Helg non avrà certo pensato in siciliano concependo il suo piano, ma ha voluto pronunciarsi in dialetto e in italiano con Palazzolo per incutergli uno stato di confusione circa la reale natura del suo discorso, se cioè fosse ammantato di autorità o rivestito di potere. L’autorità è un potere accettato e si esprime in lingua, il potere invece un’autorità imposta e preferisce il dialetto. Palazzolo, che si è ribellato coraggiosamente a un potere, ha ritenuto di essere sottoposto a un’autorità. Epperò il vero potere è quello che, a differenza dell’autorità, si esercita non usandolo.
Racconta Camilleri che il boss Nick Gentile gli fece capire con un’immagine empirica cos’è la mafia dicendogli che vero mafioso è chi persuade un altro senza violenza perché con una pistola in mano tutti siamo potenti. In Cose di Cosa nostra Giovanni Falcone riferiva lo stesso principio, ma visto sotto un altro aspetto: un automobilista protesta rabbioso contro un altro per via di un posteggio ma se ne va zitto e di corsa quando l’altro, degnandolo appena di uno sguardo, continua a parlare con un amico senza dirgli una parola.
Ma Helg ha voluto sommare autorità e potere, lingua più dialetto, e ora si chiede se forse non avrebbe dovuto stabilire con Palazzolo un’intesa del tipo di quella dei due siciliani che in La bolla di componenda di Camilleri, tenuti in due celle diverse, al momento del confronto si guardano negli occhi e fanno dire alla guardia che è inutile interrogarli perché si sono parlati.