martedì 1 agosto 2017

Il Pisciotto incendiato dai fascisti? Forse Vittorini sapeva


La prima industria di quella che fu la provincia di Siracusa fino al 1927 si chiamò Fornace Penna, creata in contrada Pisciotto nella frazione di Sampieri di Scicli. Diede lavoro a un centinaio di operai (perlopiù ragazzini di quindici anni, alla maniera dei “carusi” delle zolfatare), introducendo una parola sconosciuta che faceva per la prima volta il suo ingresso in provincia qualificando perlopiù ex braccianti portati dal campo aperto a un ambiente chiuso: “stazzonai”.
Proprietari furono i Penna, baronale famiglia sciclitana che si lasciò convincere da un concittadino ingegnere, Ignazio Emmolo, secondo il quale era giunto anche in Sicilia il momento che le case fossero costruite non più di pietra ma di mattoni. Ma la “fabbrica”, come fu orgogliosamente chiamata la fornace, venne realizzata di pietra: proprio perché non c’erano ancora i mattoni. C’era però a due passi la sabbia, c’era anche una cava di argilla e c’erano altre quattro risorse essenziali: abbondanza d’acqua, un porto vicino, lo scaro di S. Pieri e una ferrovia. 
Emmolo, che era stato in Germania e in Lombardia, smise addirittura di costruire la sua casa per dedicarsi alla fabbrica e volle entrare in società con i Penna mettendoci il suo lavoro come capitale. La fornace nacque nel 1912 nella forma di un lungo capannone di oltre ottanta metri che quando nel 1924 fu distrutto da un incendio e finì in rovina rivelò curiosamente l’aspetto di una chiesa, tant’è che come “cattedrale” è oggi anche conosciuta. Le poderose apparecchiature, che riempirono la fabbrica di laterizi destinati al mercato innanzitutto d’oltremare (si dice che Tripoli fu riedificata con i mattoni di Scicli), furono acquistate a Monza e in Germania. Arrivate al Pisciotto, furono montate dagli stazzonai sotto la guida di Emmolo, ma nessuno riuscì a metterle in moto, sicché si rese necessario fare giungere dal Nord un tecnico, chiamato fornaciao. 
L’industria ebbe fortuna. Forse troppa. Produceva ottomila pezzi al giorno di cui rifornì anche l’edilizia locale. Si può perciò supporre che le prime abitazioni di mattoni in Sicilia nacquero nello Sciclitano. Di tale supposizione non c’è prova negli studi che sono stati condotti. Ce n’è però una, importante, in un libro che uscì a puntate sulla rivista "Solaria" a partire dal 1933, soltanto nove anni dopo l’incendio doloso - che fu probabile opera di squadristi fascisti in odio contro i Penna e soprattutto Emmolo, non proprio di chiara fede mussoliniana. 
Il libro è Il garofano rosso di Elio Vittorini, scritto all’età di 25 anni e ambientato tra Siracusa e una località imprecisata dove sorge una grande fornace e vive la famiglia Mainardi. Tale località è senz’altro il Pisciotto, non solo perché non ce ne sono altre, ma soprattutto per il fatto che Scicli, mai citata, ricorre ripetutamente in riferimento alla Madonna a cavallo e a un ricordo che in realtà Vittorini conserva da quando aveva tre anni, età nella quale ha visto a Scicli la Madonna delle milizie e per molti anni custodisce uno zufolo di gesso a sua forma.
Per la precisione con la quale il giovane Vittorini (già attratto dai miti industriali milanesi di cui è già preda) descrive la vita della fornace, è facile dedurre che la vide da vicino, ancora nelle ceneri delle fiamme, rendendosi quindi testimone prezioso della realtà del suo tempo. Nel libro (che nella famosa prefazione egli chiama documento anziché romanzo: elemento che comprova una maggiore adesione al vero storico) Vittorini descrive il viaggio di Alessio Mainardi in calesse dalla stazione alla casa attigua alla fornace indicando una strada tutta rossa per i residui dei carichi di laterizi destinati allo scalo ferroviario e gli operai che tornano nei villaggi con la giacca sotto il braccio. 
Racconta anche come il padre di Alessio ha deciso di fabbricare mattoni: racconto che può avere un fondamento se si accetta che Vittorini, stregato da Scicli, abbia raccolto informazioni sulla fornace. E in particolare sul conto di Emmolo, sul quale la figura del padre sembra ritagliata quanto a ciò che l’autore fa dire al figlio Alessio: «Prima di mio padre i mattoni non si conoscevano in quella parte di mondo, poi mio padre era venuto in Lombardia nella città del nonno e durante un giro delle provincie aveva scoperto una piccola chiesa antica, nascosta tra gli eucalipti, che aveva le mura di mattoni. Si stupì mio padre che sapeva come tutti fossero in pietra di lava i fabbricati di quei posti [il riferimento, per quanto si capisce subito dopo, è certamente ai posti siciliani e non lombardi], ma più ancora si stupì l’uomo che lo accompagnava: “Mattoni! E pensare che se si potessero avere dei mattoni così le case costerebbero un terzo di quello che costano”». Il padre, continua Vittorini, ci pensa su, percorre un sentiero e infine giunge dove la terra è buona per fare mattoni e dice all’uomo che lo accompagna: “Credo che presto le case costeranno anche da queste parti un terzo di quello che costano”.
I fatti circa l’origine della fornace possono essere andati proprio a questo modo: anche per quanto riguarda la sua fine, sulla quale Vittorini non dice nulla. Un motivo c’è, anzi due: il romanzo è incompleto e non sappiamo cosa sarebbe stato dell’annunciata morte del padre e della fabbrica; ma soprattutto non ha superato la censura fascista. Vittorini tace dunque perché sa anch’egli che i responsabili sono stati i fascisti? Non è azzardato ipotizzarlo, ma occorre tenere conto anche di una lettera che, ritrovata tempo dopo, accusando i socialisti apriva una pista non trascurabile se si pensa che in quegli anni (il 1924 ricorda il delitto Matteotti) il Ragusano fu percorso da violente manifestazioni di piazza da parte dei socialisti.
"Il garofano rosso" affronta con forza la questione operaia nella parte in cui Alessio Mainardi si chiede se è necessario non mandare coetanei come lui a scuola perché si possano avere operai in fabbrica: aspetto che viene ripreso dalla trasposizione cinematografica fatta nel 1976, con Miguel Bosé ed Elsa Martinelli, quando Alessio chiede a un operaio anziano se il padre tratta bene i dipendenti.
La fornace è passata dal grande al piccolo schermo con il ciclo del commissario Montalbano. Probabilmente convinta dal suo stato di desolazione e abbandono, la produzione l’ha trasformata da fabbrica a “mànnara”, cioè a recinto di greggi, caricando per giunta il luogo di un significato sinistro, ritrovo di criminali e teatro di omicidi. È stato il più micidiale colpo inferto a un sito sottoposto a tutela architettonica, il cui effetto è stato di diffondere anche all’estero l’idea di un posto derelitto e di accrescere negli attuali proprietari e nel Comune di Scicli la refrattarietà a operare interventi di manutenzione. L’anno scorso, giacché sta crollando, la magistratura ne ha disposto il sequestro.