martedì 4 dicembre 2018

Montalbano di carta, i difficili rapporti con quello televisivo



Andrea Camilleri continua a essere frettolosamente considerato, sia dal pubblico che dalla critica militante, un autore d’intrattenimento che non sopravvivrà al suo tempo. Ma forse è giunto il momento di riconsiderare l’atteggiamento generale e studiare Camilleri nella luce di un caso letterario di eccezionale novità: partendo dall’analisi della sua ricerca e in particolare da quella che è la sua cifra più innovativa e personale: la “voglia di sgorbio”, la spinta cioè a derazzare, a cercare sempre strade nuove, a frequentare più generi e sperimentarli in un’officina che oggi è unica e che è un patrimonio italiano, siciliano in particolare. Del resto basta il suo successo a fare supporre che un giorno sarà riconosciuto come caposcuola e precursore di un nuovo gusto letterario. Il gusto riguarda l’adozione dei tempi teatrali nella tecnica narrativa: un romanzo di Camilleri si legge infatti come se lo si vedesse rappresentato sul palco, dove i dialoghi svolgono la funzione della narrazione e della descrizione; la lezione – una vera rivoluzione copernicana alla quale si sono votati decine di scrittori – è quella di avere osato per primo scrivere in dialetto (facendo parlare di più in lingua i personaggi) senza, al contrario di Brancati e Sciascia, accorrere a tradurre le parole, più che altro solo epiteti, e senza servirsi di quel “dialetto borghese” alla D’Arrigo che è stato solo una sofisticazione. Camilleri si è espresso direttamente in siciliano proponendosi quindi come il primo vero contastorie della tradizione, una volta mutata da orale a scritta.
Il personaggio del commissario Montalbano appartiene a questa sua koiné pervasa da un’atmosfera cervantina e picaresca che può apparire artificiale se vista nella trasposizione televisiva che lo ha reso nei modi di un mimo, giacché l’autore lo ha creato tutt’altro che elettrizzato come lo ha incarnato Luca Zingaretti. Dal ciclo letterario alla serie televisiva Montalbano si è in effetti snaturato ed è diventato un altro, mutazione genetica che porta a distinguere il primo Montalbano dal secondo.
Prima che in televisione, il commissario aveva comunque raggiunto il successo già da cinque anni, in libreria. La televisione se ne è appropriata e lo ha rilanciato sulla grandezza di numeri non più di centinaia di migliaia di copie ma di decine di milioni di spettatori. Con tale sproporzione è stato inevitabile che i personaggi letterari assumessero non solo i volti ma anche i modi degli interpreti televisivi. Camilleri lo ha sempre negato, anche con forte disappunto, ma la sensazione è che dopo la quinta stagione Tv, abbia scritto i nuovi episodi col passo dello sceneggiatore anziché del narratore e soprattutto tenendo in mente le caratteristiche degli attori. Interpretato da Zingaretti, il suo Montalbano è in realtà cambiato: anziché andare rallentando per le "vecchiaglie" (tenute sempre presenti da Camilleri per dare uno sviluppo cronologico alle vicende del commissario) si è come accelerato, preso da un’aria nuova.
Ma è certo che il personaggio di carta non ha né l’aspetto né il carattere di Zingaretti, perché ha i capelli, è tarchiato e lento, ha i baffi e gli occhiali e ricorda il classico signore di mezza età amante della buona tavola, sull’esempio del Maigret di Simenon al quale Camilleri non ha mai negato di essersi rifatto quanto non solo alla cucina ma anche alle figure di contorno. Zingaretti ha ben diverso aspetto, modi di fare e di muoversi che sembrano da burattino, gesti più conformi a un monello impenitente che a uno scapolo pantofolaio. Il vero Montalbano è invece quello della statua eretta a Porto Empedocle nella quale è raffigurato un docente sardo, Giuseppe Marci. Appena lo vide Camilleri gli disse: “Lei è spiccicato il mio Montalbano”.
La serie Tv continua comunque a piacere come continueranno a piacere i libri, perché, nonostante le differenti tipizzazioni, la trasposizione si è mantenuta fedele. Piace perché piace Montalbano: così eretico ed epicureo, irriverente verso le gerarchie, indifferente alle promozioni, scapolone ma non anaffettivo, portatore di un proprio codice morale nel quale sono contemplati sentimenti come la solidarietà e la sensibilità, e poi così sprovveduto e perciò umano nel servirsi dei social e delle nuove tecnologie, refrattario pure all’uso della pistola e contento della sua Punto priva di cerchioni. Come può non piacere uno così? Quelli che sono venuti dopo, da Schiavone a Coliandro, sono sue caricature, tutto il contrario del vecchio commissario alla Cattani della “Piovra”, che pure ci sembrò il più moderno rispetto agli Sheridan e ai Maigret.
Ma se è tuttavia inevitabile sovrapporre il volto di Zingaretti a quello del Montalbano inventato da Camilleri, lo stridore che l’accostamento determina si è andato di stagione in stagione stemperando perché stanno quasi per passare venti anni dalla prima puntata e Zingaretti è diventato più maturo, più coetaneo del Montalbano originale, quindi più lento e compassato, più pensiero che azione, meno chiacchierone, più in linea con il personaggio letterario che procede nelle indagini facendo uso del “ragionamento” e del “saltafossi” anziché del pedinamento e dell’intercettazione. Ma occorre precisare che, richiedendo la televisione movimento, presenza, concitazione, Zingaretti si è prestato con impegno a conformarsi e visto il successo ottenuto ha avuto ragione lui ad apparire nei panni di un instancabile trottolino, sia pure sempre meno vorticoso.
Il suo dinamismo ha connotato la condotta degli altri personaggi nella necessità di uniformare la scena. La forte caratterizzazione delle figure, disegnate in guisa di maschere teatrali, ne fa non dei caratteri minori ma autentici comprimari, tant’è che Camilleri non a caso ha voluto renderli protagonisti in episodi interamente dedicati a loro vicende. C’è di più: nella versione televisiva della serie appaiono più riusciti loro che Zingaretti. Fazio, che nelle prime stagioni sembrava fuori ruolo, perché la sagacia che mostrava avrebbe richiesto un’età maggiore, ora è cresciuto e può ben vestire i panni dell’ispettore il cui contributo possa essere superiore a quello del vicecommissario Augello. Il quale dal canto suo è reso meglio in televisione che nei romanzi, dove riesce un po’ ingessato, mentre nei modi disincantati e svagati di Cesare Bocci appare un compagnone col quale verrebbe da farsi una birra e parlare di donne, al di là del caso da risolvere. Livia, al contrario, in televisione è una figura non ben definita, anche perché è cambiata l’interprete. Viene ricordata con più facilità invece Ingrid, la svedese. Nelle vesti di un’eterna Penelope, la Livia dei romanzi piace perché si accontenta di quello che ha. La perdita di Francois l’ha resa una donna comune e riconoscibile, una madre capace di piangere dentro, in silenzio.
Del tutto malriuscito e odioso appare piuttosto il Catarella televisivo, ben più che il misirizzi, tutto sommato simpatico, dei romanzi. Solo in televisione si vede entrare puntualmente nella stanza del commissario facendovi irruzione con le braccia alzate sulla porta, da autentico idiota. Il personaggio dovrebbe indurre al riso, come in una commedia plautiana quando arriva il beone, ma finisce per rendere improbabile ogni scena dove la sua gesticolazione frenetica e le espressioni facciali da clown suonano fuori controllo e rispondono a una greve esigenza di uno sceneggiato televisivo costretto a cedere ai gusti più grossolani del pubblico di massa. Il suo ruolo nei romanzi è certamente più contenuto e composto mentre in televisione se n’è voluto fare una macchietta incaricata di suscitare il riso facile anche nei momenti più drammatici. Una vera stonatura che equivale a una storpiatura e a un tradimento del personaggio originale.
A una spanna dei suoi modi eccessivi e plateali, non lontano dalle stesse esuberanze di Zingaretti e Bocci, si è mosso anche il compianto Marcello Perracchio, anch’egli ragusano, nei panni del medico legale Pasquano, sempre sopra le righe, continuamente irascibile e indebitamente ostile al commissario. Né figure congrue risultano il sostituto procuratore Tommaseo e il questore Bonetti-Alderighi, anche loro fortemente costretti nel calco di stereotipi non poco inverosimili, accentati volutamente rispetto ai loro doppi di carta.
La produzione televisiva ha inteso fare del ciclo letterario una rappresentazione teatrale del genere della commedia dell’arte più che una serie mediatica, tradendo sì i romanzi nei cromatismi espressionistici portati alla massima possibilità ma pretendendo, visti i risultati, di avere azzeccato la formula con il farsificare la commedia camilleriana. Ora che si appresta a fare tredici, quante saranno le stagioni nel 2019, e a sbancare ancora una volta l’auditel, l’esigenza di distinguere il Montalbano cartaceo da quello catodico appare sempre più sentita: non per le sinossi e i soggetti, che conservano una stretta coerenza, quanto per i personaggi, più realistici nei romanzi e più versicolari nel piccolo schermo, più teatrali, quindi più finti. Ma questo diaframma va riducendosi dopo che Camilleri, in veste di co-sceneggiatore, si è addetto ad avvicinare le due sfere. Basta leggere gli ultimi episodi. Il commissario non pensa più né al porto né dov’era l’ulivo saraceno, perché sullo schermo non è possibile fare pensare un personaggio, ma solo farlo agire. Non risolve più i casi affidandosi al trabocchetto, il “saltafossi”. Non si ha più traccia del Montalbano “Secunnu” che fungeva da coscienza del primo. Non gli si illumina più la lampadina che gli schiudeva la verità come una folgorazione. Non soffre più di quella sindrome depressiva che lo aveva ghermito e ne stava minando la personalità. Il commissario è diventato più reale e comune, meno cerebrale, ed è diventato tale grazie alla televisione che nello stesso tempo lo ha però reso finto e diverso rispetto al modello. Si dimostra ancora una volta che il potere della televisione è preponderante sulla letteratura e può assoggettare anche gli autori che possono permettersi di snobbarlo.