giovedì 11 luglio 2019

Autrici siciliane, la letteratura dell'ombelico

 

Federico Zandomenighi 1874

Tre narratrici siciliane sono ai primi posti nelle classifiche di vendita, avendo conquistato un pubblico costituito per la stragrande maggioranza di donne, che sono sempre di più la platea forte fruitrice del romanzo. Si arriva facilmente a supporre il genere dei lettori dallo stile letterario in cui scrivono Stefania Auci, Alessia Gazzola e Cristina Cassar Scalia e con esse anche Nadia Terranova, le autrici che con la saga familiare, il romanzo intimo e il giallo hanno guadagnato posizioni di rilievo e l'attenzione internazionale. In tutt'e tre il linguaggio è quello nel quale uno scrittore non si esprimerebbe mai, tutto com'è rivolto a creare figure retoriche volanti, metafore e similitudini che pescano nell'immaginifico, intese a disegnare universali e fondamenti dell'essere, dedite alle lusinghe della descrizione rispetto alla narrazione e nella descrizione concentrate sulle forme piùacribitiche di interiorizzazione e analisi del proprio animo. 
Il ricorso all'io narrante è un segnale in qualcuna di esse, ma è l'analisi dei comportamenti a denotare la prevalenza sulla sintesi delle azioni. C'è in ognuna la cura a spiegare il whydunit invece del howdunit, il perché un'azione venga svolta piuttosto che il come. Alla trama si preferisce la circoscrizione. Non è una qualità, ma un limite e un carattere: il limite di ogni scrittrice della nouvelle vague italiana, dunque anche siciliana che oggi è preminente, a rendersi realista e il carattere distintivo dell'invenzione letteraria di genere che molto si distanzia dal registro della precedente generazione composta in Sicilia da autrici quali Luisa Adorno, Silvana La Spina, Maria Attanasio, Silvana Grasso, Goliarda Sapienza e ancora più, andando indietro, dalle autrici della prima metà del Novecento, da Maria Messina a Maria Occhipinti fino a Livia De Stefani e Laura De Falco che furono le scrittrici più vicine e sensibili alle grandi prove europee segnate da Virginia Woolf, Jean Austen, le sorelle Bronte, la cui esperienza, pur composta da un'attenzione permanente ai moti dell'animo, nulla ebbe del florilegio estenuato da primo romanticismo e del linguaggio stilistico che oggi pervade la letteratura femminile. 
Un linguaggio femminile che può appunto piacere a un pubblico femminile, più disposto a mettersi al fianco dei personaggi e condividere i loro patemi ed effluvi e con essi il profluvio esorbitante di similitudini che è proprio delle scrittrici in auge: da distinguere tuttavia da scrittrici anagraficamente più avanti come Simona Lo Iacono e Tea Ranno, che mostrano un tono meno caduco nell'uso di figurazioni e astrattismi, più concretezza nel servirsi di uno sguardo mimetico, non compromesso con la ricerca del disegno ornato a tutti i costi, benché anch'esso molto femminile nella vocazione a ricostruire storie vere di paesi di provincia, persino di vicoli e frazioni, con una cura evidente per le interiorizzazioni. 
Prendiamo la Gazzola, l'autrice più letteraria e dalla scrittura limpida, cartesiana, spumeggiante. Senza allontanarsi dalle primissime pagine del suo Lena e la tempesta si trovano espressioni che solo l'ardimento congenito a creare mondi in un'ottica femminile può spiegare, cosicché il ricordo di un segreto inconfessabile le sovviene "come un fetido bollore sotterraneo ben nascosto da un lastricato tirato a lucido o come il ronzio di un coleottero imprigionato al centro del torace". Un coleottero vivo nel torace e che per giunta ronza? E un cattivo odore che viene da sottoterra? Siamo solo al dodicesimo rigo del romanzo e viene voglia di chiuderlo nel sospetto di essere presi in giro. 
Sennonché l'autrice forse si rende conto delle assurdità che scrive a precisa (anziché cancellare e rifare): "Le mie metafore sull'argomento sono pressoché infinite". Altroché se lo sono! Poche righe dopo infatti l'isola che sta per raggiungere le "sembra galleggiare su una distesa d'acqua senza temere il fuoco del vulcano mezzo addormentato né la potenza del vento che leviga il profilo delle rocce brune". Può sembrare e vuole essere una rappresentazione lirica, ma si sente la pesantezza, la melassa, l'implausibilità, la fatica di prendere il volo. C'è nell'autrice messinese la spinta ossessiva e spasmodica ad evocare suggestioni, suscitare sospiri, creare quadri icastici di cui non c'è in realtà alcun bisogno, così come non serve al racconto l'acceso ed eccessivo profondismo che costituisce il gravame della scrittura femminile in opposizione al carico che pesa sui modi della scrittura maschile, ovvero il moralismo: e a ragione opera tale diversità, il profondismo riguardando i sentimenti, quindi la coscienza, il moralismo attenendo all'etica, e cioè alla condotta sociale. 
Introspezione dunque contro realtà. Il tema del nostos declinato nel senso di una riappropriazione del proprio passato da dove elicere i lati rimasti oscuri è pure di Nadia Terranova, anche lei messinese della diaspora e contaminata dal gusto per l'iperbole. In Addio fantasmi, romanzo curiosamente omologo nella fabula iniziale a Lena e la tempesta, anche quanto alla prima persona narrante, fortissimo appare il sussiego autobiografico intinto nella vena intimistica. Non manca la marca distintiva della metafora corriva e sopra le righe. Basti questo passaggio: "Non esisteva una casa che avrei più chiamato nostra, quell'etichetta si era staccata quando ero andata via e negli anni successivi ne avevo ripulito la memoria con accurata violenza". L'ossimorica violenza accurata si riferisce alla... memoria dell'etichetta. Il deficit principale nell'uso di metafore così ardite è sempre, in queste autrici, nel mancato rispetto del senso interno della metafora, giacché di una etichetta che si stacchi non si può invero ripulire la memoria, tantomeno con una violenza meticolosa. Ma tant'è. 
Anche nella Terranova agisce un richiamo al minimalismo e insieme con esso alla descrizione dell'inessenziale e dell'accidentale, dei gesti più che dei fatti, una tentazione alla rimemorazione, che è connaturata nelle altre autrici di questa ultima stagione. Non poche volte, per questa via, si finisce nell'anacoluto e nella vuotaggine. Ecco un esempio: "Tutto quello che cercavamo riuscivamo a darcelo in un tempo minimo che non si allargava mai, dopo il quale ripristinavano la nostra irriducibilità, quell'estraneità che era stata anche la nostra regola dell'attrazione". Tale tecnica descrittiva - estremamente difficile da trovare in un autore: forse solo in Andrea De Carlo e in misura ben minore in Bevilacqua - è il signum individuationis, l'elemento paradigmatico di una condizione generale che è quella della letteratura femminile, una letteratura dei punti neri, dello scavo psicologico portato alla notomizzazione dell'anima, in sé inconcludente nel tentativo di elevare a stati generali aspetti particolari di nessuna importanza, quegli stessi che già Aristotele raccomandava nella Poetica di evitare nel comporre una tragedia. 
In accidentalità abbonda soprattutto Cristina Cassar Scalia che nei suoi gialli seriali di ispirazione decisamente camilleriana, non tanto per l'uso moderato del dialetto (che però è dei soli personaggi e non dell'autrice) quanto per la costruzione della trama ad incastro, indulge a descrivere facezie per fare colore, ma il suo linguaggio nulla concede al barocchismo, alla tentazione della similitudine, per modo che più che agli stati d'animo lei presta interesse ai caratteri, quanto più definiti, come le ha insegnato la lettura attenta di Camilleri. Sicché la sua è una narrativa al femminile per via della funzione regolatrice della diegesi che svolge la protagonista, vicequestore aggiunto Vanina Guarrasi, il cui punto di vista detta il passo alle altre figure mercé trovate, battute di spirito, considerazioni che sono proprie di una donna in verità un po' petulante. 
Torna invece al fraseggio esornativo fino all'eccipiente Stefania Auci, autrice di I leoni di Sicilia, il principale merito del quale romanzo, per spiegarne il subitaneo successo, è proprio l'oggetto, rappresentato dal mito inesausto della famiglia Florio, come pure dall'invalente interesse del pubblico femminile per le grandi saghe. Anche in lei si ritrovano espressioni, per stare alle sole prime pagine, che rasentano l'insensato come "Il tempo si polverizza in milioni di istanti" oppure "La tensione si sta liquefacendo in una sorta di spossatezza lasciando il posto a sensazioni fisiche" o ancora "Il ricordo di sua madre è una folata di vento nella notte", "Bagnara è prigioniera di un tempo sospeso", "L'alba trafigge il buio attraverso le fessure della porta. Una luce dorata, che parla di un autunno incombente". Il virtuosismo anche nella Auci è piaggeria, retaggio di una letteratura ottocentesca alla Luigi Gualteri o alla de Montépin che è arrivata fino a noi nella versione femminile, un cascame che fa pensare come oggi il romanzo di successo sia quello figlio di Angiola Maria, il libro sentimentale che le figlie del principe di Salina amano leggere la sera a voce alta tra profondi sospiri di struggimento. 
Tuttavia siano salutate con sommo gaudio queste nuove autrici siciliane che rilanciano la letteratura isolana alla testa di quella nazionale. Con l'auspicio però che questa letteratura dell'ombelico non diventi mainstream e non siamo costretti a leggere romanzi flaccidi e lacrimosi come due secoli fa. Il rischio è di tornare a D'Annunzio, accompagnati per mano dalle sue donne ancelle e vestali. La Sicilia, che ha sempre fatto da officina e laboratorio alle lettere italiane, stavolta stia attenta a non reiterare il fomite. Una buona dose di narrativa maschile, in tempi che si sono lasciati alle spalle il novecentismo e il postmoderno scegliendo la strada del realismo e della post-verità, è quanto mai augurabile: a cominciare dalla Sicilia dove Camilleri non può essere lasciato solo.