mercoledì 17 luglio 2019

La morte di Camilleri, il contastorie della Sicilia che cambia


Andrea Camilleri è morto stamane alle 8.20 al Santo Spirito di Roma dov’era ricoverato dal 17 giugno. Durante la notte le sue condizioni si sono aggravate. Sin dal momento del ricovero è stato in coma farmacologico. Che è durato un mese esatto, anche nel computo delle ore trascorse dal malore alla morte.
Il 6 settembre avrebbe compiuto 94 anni. L’ospedale ha diffuso un ultimo bollettino nel quale comunica il decesso e rende noto che “le condizioni sempre critiche di questi giorni si sono aggravate nelle ultime ore compromettendo le funzioni vitali. Per volontà del Maestro e della famiglia le esequie saranno riservate. Verrà reso noto dove portare un ultimo omaggio”. Il riferimento è al luogo della tumulazione, che sarà un cimitero di Roma e non di Porto Empedocle: decisione presa da molto tempo dall’autore siciliano per il desiderio di restare vicino alla sua famiglia (la moglie, le figlie e i quattro nipoti) più che al suo paese natale.
Attraverso l’ospedale la famiglia ha diffuso questo comunicato: «“Mi piacerebbe che ci rincontrassimo tutti quanti, qui, in una sera come questa, tra cento anni!”. È con queste parole che concludevano la sua “Conversazione su Tiresia”, che la famiglia di Andrea Camilleri e le persone a lui care vogliono salutare e ringraziare tutti i suoi lettori e tutti i suoi amici di avergli voluto così bene. La moglie, le figlie, i familiari di Andrea Camilleri ringraziano il Dott. Roberto Ricci, il Dott. Mario Bosco, i medici, gli infermieri e tutto il personale del Reparto di Anestesia e Rianimazione e dell’intero Ospedale Santo Spirito di Roma per la grande professionalità e il profondo affetto che hanno dimostrato nei confronti del loro caro. Sarà possibile salutare Andrea Camilleri domani 18 luglio dalle 15 presso il Cimitero Acattolico per gli stranieri al Testaccio in via Caio Cestio 6 a Roma».
Uomo schivo, timido, capace di grandi slanci e sempre con un’espressione di sorpresa in faccia per il successo avuto, quasi a non rendersi conto dei propri meriti, non si arrabbiava mai, se non quando era bersaglio di lapidari giudizi da parte di critici che non lo avevano letto. Accettava di essere condannato, diceva, ma pretendeva una motivazione. In realtà non capiva di vivere la stessa condizione di quei sovranisti da lui tanto disprezzati come Matteo Salvini amatissimi dal pubblico e avversatissimi da opinionisti e pensatori. Gli è toccato lo stesso destino di molti scrittori relegati dalla critica nel limbo dell’intrattenimento e tenuti esclusi dal parnaso della letteratura. Camilleri non ha avuto nessuno dei premi importanti quali lo Strega, il Supercampiello, il Grinzane, il Bancarella, il Bagutta, il Chianti, riconoscimenti andati ad autori e libri di nessun valore e durati il volgere di una stagione. Il Campiello gli ha conferito quest’anno – alla memoria – solo un nastro speciale, tributato non all’autore quanto alla sua interpretazione di Tiresia al teatro greco di Siracusa. Camilleri (che qualche premio significativo lo ha invece avuto all’estero) ha fatto di tutto per superare questa pregiudiziale, cercando di non legarsi al personaggio del commissario Montalbano, anzi provando a prenderne le distanze e a disconoscerlo, sicché se ne lusingò e diede molta importanza al Meridiano che la Mondadori dedicò alle sue opere cosiddette di argomento storico e civile, ritenendo che la propria cifra letteraria fosse più conforme alla ricerca storica che non al giallo, a quella visione della narrativa di tipo sciasciano che predilige le microstorie, gli eventi dimenticati, gli intrighi lasciati insoluti, spingendosi fino a un manzoniano “misto di storia e invenzione” sul quale insistette molto con esiti prova dei quali sono soprattutto opere come Il re di Girgenti, Il birraio di Preston, La concessione del telefono, Privo di titolo. Il successo gli è invece venuto proprio da Montalbano e in particolare dal Montalbano televisivo, in verità molto distante dal personaggio letterario.
La Sicilia deve molto a Camilleri, avendogli però dato ben poco, perché se n’è fatto ambasciatore imponendo nel mondo una koiné che i suoi libri hanno adottato come tecnica narrativa di forte innovazione e largamente sperimentale: al contrario del modello tradizionale di romanzo nel quale sono i personaggi a esprimersi nella loro parlata, nell’opera principale di Camilleri è infatti l’autore a usare il dialetto mentre i personaggi propendono per l’italiano o al massimo per un dialetto borghese che rifugge da vocaboli arcaici e di valenza territorialmente circoscritta. E’ vero che il volgare di Camilleri è quello agrigentino, ma è una parlata che si lascia intendere come propria anche nelle altre province.
Adesso, superata una stagione di revival che speriamo lunga, si vedrà quale sarà il peso di Camilleri nella letteratura italiana e quale il giudizio complessivo che ne trarrà la critica, già in gran parte a lui sfavorevole. Scrittore che si è fatto amare anche per i suoi modi, la sua modestia, il suo impegno umanitario, una simpatia spontanea e comunicativa, Camilleri ha venduto oltre trenta milioni di copie ed è l’autore italiano di sempre più commercialmente affermato. Nello stesso tempo è anche il più discusso, non solo per la sua opera giudicata minore ma anche per la sua attività di tipo politico. Certamente, nella massima coerenza dimostrata, non ha mai nascosto la sua fede di vecchio comunista, di quel comunismo che nelle radici solidali e ugualitarie che lo animavano molto si accosta al cristianesimo, analogia che per questa via rende l’ateo Camilleri un possibile credente. Prova ne è il libro che nel 2017 ha voluto scrivere e distribuire soltanto a pochi amici, un breve romanzo che racconta di un sacerdote che si sacrifica per salvare una vita. Rimane il suo ultimo mistero la decisione di non pubblicarlo. Forse ha voluto rendere una rivelazione mascherata, una verità che si è portato con sé, un incontro riservato con il suo angelo. Quel libro sibi et paucis si intitola Parla, ti ascolto, una invocazione che ha un fondo chiaramente cristiano. Che Camilleri abbia fatto come Bufalino, altro miscredente, che in tarda età regalò a un amico una lettera nella quale adombrava un suo incerto sentimento religioso? Non lo sapremo mai. Quel che rimane di ufficiale è la sua ultima apparizione nei panni di Tiresia, una recitazione in forma di orazione laica che terminava con un saluto e un appuntamento: “Rivediamoci qui fra cento anni”. E’ stato in quel modo che  ha voluto rimanere tra i vivi: nei panni di un vecchio che ha in dispregio la morte.
La morte. Camilleri ha avuto un rapporto felice e fortunato con la vita e difficile e tortuoso con la morte. Vi ha resistito fino a quando ha potuto: fino alle soglie dei cento anni e per un mese rimanendo a metà tra una e l’altra realtà. E di realtà parlava unicamente Camilleri riguardo alla morte, che vedeva non come qualcosa di sacro, ma di reificato, di materiale e perciò di spaventoso. Il suo Montalbano non a caso ha il terrore dei moribondi, non va a trovare il padre morente e dice a un mafioso che sta per morire di non avere paura, cercando così di infondergli un coraggio che forse l’autore si dava egli stesso. Con riluttanza parlava della morte e diceva di non sapere come avrebbe reagito alla sua venuta, nel proposito di non assumere reazione alcuna, di non dare alla morte alcuna soddisfazione. C’è riuscito, perché è stato in coma, né ha avuto avvertenza al momento del malore perché perse i sensi. Anche in questo è stato un grandissimo uomo. Ha vinto alla fine la morte dopo una lunga battaglia ma Camilleri ha avuto l’onore delle armi.
Lo piange l’Italia ma lo piange innanzitutto ogni siciliano, in ognuno dei quali alberga un pezzo del suo carattere introverso, della sua isolitudine, del suo Montalbano che alla gente preferisce l’ulivo saraceno e il molo di Vigata dove appartarsi. Si può ripetere per lui quanto Sciascia scrisse di Ettore Majorana: «Come tutti i siciliani “buoni”, come tutti i siciliani migliori, Majorana non era portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della “cosca”». Un buon siciliano Camilleri e un siciliano buono. Ce ne ricorderemo di questo padre nostro.