Pulchera è una contrada appena fuori Capizzi, sui Nebrodi. Nel 1943 erano attivi mulini e gualchiere e fu lì che si accampò a luglio una compagnia di goumiers, da goums, che sta per “gruppi”, quelli nei quali erano raggruppati i soldati "liberatori" venuti dal mare. Un giorno di quelli trovarono tutti la morte per mano della popolazione armata di roncole e randelli. I feriti furono finiti e pietrate e gli scampati inseguiti nelle viuzze del paese al grido “al turco, al turco”. Non erano turchi, ma marocchini. Erano avvolti in pesanti barracani a strisce e portavano mitragliatori e pugnali alla cinta. Venivano dalle tribù del Maghreb e costituivano i reparti non regolari del Corpo di spedizione francese. Un anno dopo, nel ’44, si distingueranno in due imprese: sfonderanno la Linea Gustav a Cassino e stupreranno nella Valle del Liri sessantamila persone: non solo donne, ma anche uomini, parroci compresi. In quell’occasione, di fronte alla ecatombe di morti inglesi e americani falciati dalla resistenza tedesca di Montecassino, il loro generale, Adolphe Juin, dirà in un proclama: “Alle spalle del nemico vi sono donne, case, vino e oro. Tutto sarà vostro se vincerete. Per cinquanta ore sarete patroni di tutto e nessuno vi punirà”. Resteranno settemila goumiers dei dodicimila arrivati dalla Sicilia: basteranno per creare una nuova razza, quella delle “marocchinate”, donne disonorate e sifilitiche rifiutate da tutti e piante da Moravia in La ciociara per essere poi incarnate da Sophia Lorena nell’omonimo film.
Ma prima di arrivare in Ciociaria con ampia licenza di stuprare, i goumiers sono stati sui Nebrodi a fronteggiare la Linea Goering e fare prove di barbarie. Sono considerati dalle forze alleate ineguagliabili nelle manovre militari montane. Capizzi, a oltre 1100 metri, è come casa loro, perciò saccheggiano, rubano, requisiscono e violentano, passando di casa in casa senza fare differenza tra fanciulle di tredici anni e nonne di ottantacinque. Il comando americano, messo a conoscenza degli eccessi, li richiama, ma non fa in tempo a salvarli. I contadini e i pastori dei Nebrodi è gente che crede nella proprietà - le donne, per esempio - ed è pronta a fare una guerra civile, lì e subito. Che i nemici siano un’intera compagnia di valorosi guerrieri che si copriranno di gloria a Cassino (tanto da far dire nel ’93 a Tahar Ben Jelloun che “i marocchini non erano assatanati di sesso come li ha descritti Malaparte in La pelle e che in Marocco sono considerati gli eroi Cassino”) non li spaventa più di una grandinata che colpisse campi e armenti.
Una turba con doppiette e tromboni si fa giustizia e lava l’onore collettivo nel sangue del loro bivacco di Pulchera. Nessun goumier riesce a lasciare vivo i Nebrodi perché nessun generale ha detto loro che i siciliani sono paciosi sì ma gelosi. I capitini sono in sovrappiù anche biliosi. Lo dice la storia. Cicerone li ricorda vessati da Verre, condizione che ha evidentemente costituito il torto originario se nei secoli di torti non ne hanno più sopportati: nel 1232 danno luogo a una rivolta e vengono trasferiti in massa a Palermo per essere tenuti meglio sott’occhio; l’8 marzo 1705 non accettano il rincaro del pane e distruggono i forni; il 22 luglio 1820 assaltano la casa del barone Nicolò Larcan Lanza e saccheggiano gli uffici pubblici; e nel 1849 non si fanno scappare l’occasione per scendere di nuovo in piazza e unirsi alla rivolta siciliana contro la tassa sul macinato. Insomma hanno sempre dato l’esempio. E, intonando il grido “Ricordatevi di Bronte” (che non è lontana), nel ‘43 compiono un multidelitto d’onore in accomandata non rispondendone a nessuno, artefici di un strage dimenticata e impunita perché giusta e sacrosanta.
Ma non è perché oggi qualcuno possa temere una riapertura dell’inchiesta che a Capizzi tutti hanno perso la memoria. Anche i pensionati pluriottantenni (qualcuno dei quali chissà che non senta riecheggiare ancora qualche urlo notturno sentito da bambino levarsi in arabo all’angolo di una cantoniera) fanno le facce di chi sente straparlare. I nonni questa storia non l’hanno voluta raccontare ai nipoti per cui si è persa la memoria. Un regista de “La grande storia” di Raitre, Enzo Cicchino, realizzando un documentario sulle gesta dei goumiers in Italia, finì per arrivare ovviamente a Capizzi e riuscì a far parlare un testimone: “Cosa mi disse? Mi parlò per un’ora sempre per sottintesi e alla fine ne seppi quanto prima”. Praticamente il testimone non disse niente di Pulchera, tant’è che Cecchino è rimasto all’oscuro della strage d’onore.
Fu l’unica in Sicilia nei giorni successivi allo sbarco e a governo alleato già insediato. Diversamente che a Geraci Siculo, dove il 24 agosto un tumulto popolare venne soffocato dall’Amgot in un baleno e costò di ventiquattro condanne detentive, a Capizzi si combatté la sola battaglia che le forze alleate persero, piegate da un nemico apparso non in orbace ma in gabbana. Ma non fu soltanto a Capizzi che gli angloamericani fomentarono efferatezze. Catania su messa a sacco da tutti, civili e militari, tanto che – come ricordava Sandro Attanasio in un libro – le botteghe esponevano cartelli del tipo “Signori ladri, la bottega è vuota, non c’è più niente da rubare”. A Ramacca un pretore, che per protestare contro il trattamento a colpi di frusta usato sui civili, disse a un ufficiale inglese “Tenente, non si può fare di tutta l’erba un fascio”, fu arrestato e rinchiuso nel campo di Priolo bastando l’accusa di aver pronunciato la parola “fascio”. I militari della efficientissima Mp vendevano sigarette ai civili che le rivendevano al mercato nero, ma prima di riuscirci altri militari della Mp li arrestavano e requisivano loro le sigarette ricettate per rivenderle ad altri civili.
Lo spirito del tempo risulta dalle memorie di G.R. Gayre, il ministro Amgot della Pubblica istruzione, che si è divertito nel riportare in un suo libro di memorie una geremiade palermitana: “Quando dicevamo buongiorno avevamo il pane ogni giorno, oggi che diciamo gudbai non l’abbiamo mai”.