lunedì 22 maggio 2023

Conoscenza, il mistero di una parola con troppi significati

 


Il termine "conoscenza" è uno dei più misteriosi e plurimi che si... conoscano. Cosa vuol dire il Signore rivolto a Mosé: “Ti ho conosciuto per nome”? E cosa vuol dire Mosé al Signore: “Indicami la via, così io ti conosca e trovi grazia ai tuoi occhi”? E poi: cosa intende Faraone quando dice di non conoscere il Signore? E ancora: perché la Bibbia usa il termine conoscere per indicare l’atto della procreazione come anche per specificare l’idea di consapevolezza, nella cui misura dispone infatti pene subordinate alla necessità che il colpevole conosca il peccato commesso: che gli debba essere forse notificato o che sia colto da hybris? Il termine integra davvero un mistero universale. Voluto come tale proprio da Dio. Perché sia inconoscibile. 
Nella Bibbia il concetto di conoscenza viene disarticolato in molteplici significati quasi che una mente superiore volesse farne perdere il valore semantico, la sua potenza divina, una volta commesso il peccato originale. Quando Dio dice a Mosé di averlo conosciuto per nome accoglie un’idea umana di conoscenza (in una accezione dunque limitata: perché non può conoscere Mosé solo per nome né soprattutto può averlo conosciuto in un preciso tempo, come l’uso del passato prossimo lascia pensare) o propala un concetto fuorviante di conoscenza? La sola Bibbia non ci aiuta.
Se guardiamo all’altro grande e successivo multilibro “divino”, la Comedia dantesca, troviamo un uso altrettanto criptico e molteplice del termine: a partire dall’incitazione perché la conoscenza sia seguita insieme con la “virtute”, tale da volere quasi giustificare l’atto sacrilego di Adamo. Tralasciamo - per non cedere all’esoterico - di capire perché nel Cinquecento la Commedia diventa “divina” quando è anche infernale e perché Dante chiama il suo poema “Comedia”, che può significare componimento in stile medio e a lieto fine ma può anche sottendere il senso di conoscenza: e questo se il termine “medium” si interpreta nel senso di “comune”, cioè visibile e pubblico; e se il poema viene visto alla stregua di un itinerario per conoscere alla fine Dio, com’è nello spirito della Bibbia dove uomini, patriarchi e profeti si distinguono se hanno fatto o meno la sua conoscenza. Mettiamo da parte tutto questo.
Ci interessa piuttosto il fatto che nella Divina Commedia troviamo che vedere e conoscere sono due atti distinti. “Vidi e conobbi l’ombra di colui che fece il gran rifiuto” è espressione che postula due azioni consecutive: Dante non guarda e poi vede, cioè riconosce, Celestino V, ma lo vede, quindi lo riconosce, e poi lo conosce. Fa un’altra cosa. Così come quando Oderisi lo scorge: “E videmi e conobbemi e chiamava”, un polisindeto che allinea momenti differenti e consecutivi. 
Altrove Dante determina una conoscenza disgiunta, come fa Dio nella Bibbia: “Fa che tu trovi alcun ch’al fatto o al nome si conosca”. E nel Convivio pone la conoscenza, insieme con la “subiezione” e l’”obedienza”, a capo delle qualità di un servo, che deve sapere di che indole è il suo padrone per meglio servirlo.
Ma conoscere non equivale a sapere, sebbene Dante usi, soprattutto nel Paradiso, il primo termine nel significato del secondo. Conoscere involge un'intuizione e un processo mentale: bisogna capire e quindi compiere atto di comprensione. Occorre arrivare a Kant per dare alla conoscenza il senso di una percezione più che di una osservazione: conta il conoscente anziché l’oggetto conosciuto. Sicché l’idealismo kantiano può suggerire di non chiederci come sono fatte le cose in sé ma come debbano essere fatte perché noi possiamo conoscerle, giacché tutto esiste ed è reale se contenuto nei nostri schemi concettuali. Il positivismo elaborerà però un’altra idea di conoscenza che si precisa non nella cosa ma nel fatto e si affida alla scienza. Si torna perciò al punto di partenza, all’impossibilità di arrivare a una definizione - quasi che sia questa la volontà divina.
Sarà a ragione di tale aporia, a motivo di un arcano, che la filosofia invece che di conoscenza preferisce parlare di gnoseologia? Conoscenza è parola tanto più usata quanto più stregata. Lo Zohar, il libro del più oscuro misticismo ebraico, trova che nell’Esodo lo stesso Onnipotente fa una sottile differenza tra apparire e farsi conoscere. Dio appare ad Abramo, Isacco e Giacobbe ma senza farsi conoscere perché questo privilegio spetta solo a Mosé. E perché? Perché, secondo lo Zohar, Mosé può vedere i colori eccelsi in cui Dio si manifesta, quelli occulti, mentre gli altri colori sono colori “che appaiono” o manifesti, che illuminano e risplendono. C’è un modo per vederli secondo il “Libro dello Splendore”: chiudendo gli occhi e facendo roteare il globo oculare, perché non è concesso vedere i colori che risplendono ad occhi aperti. Sicché Dio non si fa conoscere ai tre patriarchi ma appare loro mostrandosi nei soli colori manifesti.
Ci sono parole che più si ripetono e più forza perdono. Se per esempio una persona bestemmia di continuo alla fine sembrerà a lui e a chi ascolta che quanto dice non è più così grave. E ci sono parole che più si cerca di definire e più se ne limita l’esatto e compiuto significato. È come la parola amore: se proviamo a dire perché e quanto amiamo una persona, qualsiasi cosa diciamo, qualunque iperbole usiamo, non riusciremo mai ad esprimere ciò che davvero sentiamo. Amare significa non sapere dire perché. E così è anche per la conoscenza. Non c’è niente di più ineffabile. La conoscenza appartiene solo a Dio che la dispensa come la grazia. A suo discernimento. Come fa con Giobbe, dal quale pretende che non gli chieda spiegazioni della sua condotta. Ama Abele e odia Caino solo perché preferisce una libagione a un’altra, sceglie Giacobbe e ripudia Esaù sebbene il primo sia bugiardo e ipocrita. È imperscrutabile. La lingua di Dio è, come dice Agostino, ineffabile. E tale è anche la conoscenza. Un segreto superno direbbe lo Zohar. Chi ne penetrasse davvero il senso mangerebbe un’altra mela.