giovedì 9 ottobre 2008

La Chiesa secondo il vangelo di Sciascia


Per andare a Montedoro a insegnare religione, don Angelo Rizzo non poteva che passare, ora sono quarant’anni, davanti alle cave che erano state il rifugio di fra’ Diego La Matina, l’eretico assassino dell’Inquisitore. Ma più che il monaco delinquente, il futuro vescovo di Ragusa vedeva apparire tra gole e giogaie l’ultimo eretico vivente - quel Leonardo Sciascia di civile e altrettanto tenace concetto impegnato nelle prime incursioni nei territori clericali - che era devoto di Montaigne, scettico al suo pari, e credente, come “il piccolo giudice” del suo futuro Porte aperte, in un giusnaturalismo di fede etica e rensiana. Un collega di Lettere che insegnava anch’egli a Montedoro, cugino di Sciascia, lo aveva accompagnato a casa sua, cosicché don Angelo aveva conosciuto un laico che teneva sul comodino il Vangelo e che al vescovo Ferraro di Agrigento andrà a donare un prezioso calice d’argento (di cui il prelato si servirà il giorno dei suoi funerali, celebrati con ben sette sacerdoti in paramenti da messa cantata): una coscienza pascaliana che con i preti di Racalmuto cercherà continuamente il dialogo in un instancabile andirivieni di riconoscimenti e sconfessioni che riguarderà anche lui, don Angelo, al culmine della polemica che nell’83 li farà incontrare all’ombra della nascente Base missilistica di Comiso.
Don Alfonso Puma, l’arciprete della Matrice, davanti alle cui porte istoriate termina il Corso Garibaldi dove Sciascia continua oggi a tenere in un bronzo il suo passo lento e la sua grinza ironica, ricorda quando davanti a un suo quadro - un uomo nudo che esce da una tomba e si guarda attorno - Sciascia commentò: “Potrei essere io”, dichiarazione presa da don Alfonso come atto di fede nella Resurrezione. E don Salvatore Scimè, gesuita, menò vanto fino all’anno scorso, quando è morto, di avere da direttore della Scuola di teologia di Modica conferito al compaesano Nanà Sciascia il diploma di assistente sociale honoris causa, da lui preferito, in segno di amicizia, alla laurea ad honorem già pronta per lo stesso giorno. Per il resto Sciascia ha sempre “inseguito preti cattivi” come confessa in Dalle parti degli infedeli. Tali furono per esempio padre Arrigo e padre Casuccio. Don Arrigo gli chiese una prefazione a un suo libro e Sciascia esortò don Puma a scoraggiarlo dal pubblicare, “per il bene della categoria”, gli disse, con riferimento ai preti e non agli scrittori; e a don Casuccio rimproverò il sostegno che dal pulpito profuse alla candidatura a sindaco del nipote.
Don Angelo Rizzo ebbe invece trattamento ben diverso. Quando insegnava Religione alle Magistrali di Caltanissetta, Sciascia (che da buon padre entrava in ansia quando le figlie tardavano a rincasare) faceva la fila con gli altri genitori nel giorno di ricevimento per chiedergli, amabile e rispettoso, che profitto ottenesse la figlia nella sua materia, a riprova che la religione non era tenuta da lui in basso conto, come era possibile attendersi da un illuminista di pasta dura. Si incontravano anche nella Biblioteca di Caltanissetta, comportandosi come i porcospini di Schopenhauer, che reiterano come in un rito il gesto di avvicinarsi in cerca di calore e di respingersi appena sono punti. Nacque una conoscenza che si lasciò tentare dall’amicizia. 
Rizzo ricorda oggi (nel suo letto di infermo, dove ha adagiato il corpo ma non la mente, ancora vivida e vigile) “lunghe e illuminanti conversazioni” e conserva memoria di un’amicizia intesa “non nel senso della vecchia sapienza romana, del volere e non volere le stesse cose, ma di un rispetto profondo delle idee dell’altro”. Un’amicizia a misura di honnete homme che arriva presto a un bivio: don Angelo viene nominato vescovo di Ragusa dove presta sempre più orecchio alle ragioni del primato della Chiesa sul secolo mentre Sciascia si radica al poggio della Noce, nell’agro racalmutese, da dove aguzza la vista sull’Italia osservando la palma risalire il continente per poi tornare a scrutare le cose di Sicilia, restringendo lo sguardo a Comiso, quando la Nato trova la prateria buona per i suoi missili. L’amico Bufalino è solo a officiare il battesimo di Cruisetown e a protestare contro “i nuovi barbari”, soldati della sventura e santoni della pace, “presunti falchi e presunti colombi che sono venuti da lontano e hanno sbagliato tutto: passo, accento, entrata, battuta”. Sciascia corre al suo fianco.
L’occasione si presenta nel 1982: Raniero La Valle va a trovarlo alla Noce e lo invita, in qualità di deputato siciliano, a un convegno da tenersi a Ragusa e Comiso il primo maggio, festa dei lavoratori. Gli chiede di suggerire un titolo e intanto gli domanda: “Invece dei missili di cosa ha bisogno, secondo te, la Sicilia?”. E Sciascia gli risponde: “Il titolo lo hai trovato tu stesso: ‘Invece dei missili’”. La Valle di rimando: “Ma non mi hai detto di cosa ha bisogno la Sicilia.” Sciascia ci pensa e volge lo sguardo attorno: “Dell’acqua” dice, posando gli occhi sulla campagna riarsa. 
L’acqua è sempre stata l’ossessione di tutti i racalmutesi, che ne sono del tutto privi in vita per la perenne siccità e ne hanno troppa dopo morti per colpa delle infiltrazioni idriche che sono la croce del cimitero. Il sogno comune è di finire all’asciutto. “Per quel che mi riguarda - scrive Sciascia già nelle Parrocchie di Regalpetra - ho ragione di credere che non mi toccherà un posto asciutto: dovrebbero farmi un tabuto a forma di barca”. E invece ha avuto un posto asciuttissimo. Per di più il genero ingegnere gli ha costruito un particolare tipo di loculo in cemento armato che impedisce la decomposizione del corpo.
Ma nell’82 Sciascia ha testa ai vivi e non ai morti, pur se deve compiangere un altro morto eccellente, Pio La Torre, ucciso il 30 aprile, il giorno prima di parlare a Ragusa sul tema della non violenza in Sicilia. E’ qui che nasce l’idea, che si realizzerà nell’87, di scrivere un libro dove sciogliere una requisitoria contro la pena di morte entro un sentimento certamente religioso. “La non violenza - dice in un intervento dimenticato - va praticata e affermata a porte aperte” e, mentre ha già il titolo del libro, cita Montaigne che invita a tenere le case aperte come migliore difesa perché “ogni sentinella è simbolo di guerra”. Sciascia invita a una “resistenza coerente, piena, fiduciosa; e vorrei dire anche religiosa”. Resistenza soprattutto contro i missili di Comiso: “Non vogliamo i missili a Comiso perché non vogliamo essere parte di una qualsiasi alleanza militare, perché vogliamo che il nostro paese si difenda, come la casa di Montaigne durante la guerra civile, aprendo le sue porte e non chiudendole. Dire che non vogliamo i missili accettando il cosiddetto ombrello dell’alleanza militare, se è un espediente tattico siamo alla menzogna, se è una sincera convinzione è un’insensatezza. Una cultura di pace, quale quella in cui vogliamo avviarci e avviare, non può nutrirsi né di espedienti né di insensatezze”.
A giugno dell’anno successivo Sciascia lascia la Camera e a dicembre torna nel Ragusano per presentare a Modica un libro sulla Contea. C’è anche il vescovo Rizzo, che parla della pace. Sciascia, in suo omaggio, prende la parola e lo approva. Negli stessi giorni, in un’intervista al “Sabato”, il vescovo si esprime sul tema parlando di “pacifismo unilaterale propagandato dai pacifisti che calano dal nord e determinato da una vera psicosi della paura e da una forma di isterismo collettivo e collegiale forse al vuoto di ideali”. E Sciascia qualche giorno dopo bolla “il mondo del pacifismo esteriore e conclamato” giudicandolo “pittoresco e irritante”. Non diversamente la pensa per la verità anche Bufalino che parla di “corte dei miracoli”. Quando scoppierà la polemica, di lì a quale giorno, il vescovo si ricorderà dell’opinione favorevole resa da Sciascia a Modica e non riuscirà perciò a spiegarsi le dichiarazioni pronunciate contro di lui.
E’ successo che nel frattempo mons. Rizzo fa una cosa che non piace a Sciascia: il 22 dicembre va nella Base di Comiso e benedice la posa della prima pietra della cappella intitolata a Cristo Nostra Pace. Ci sono anche le autorità militari d’oltreoceano che insieme con lui incidono nella pietra grezza ognuno la propria firma che il cemento custodirà solo per la breve stagione del riarmo. Sciascia (ad anno orwelliano alle porte e dunque nella profezia di una restrizione globalizzante della libertà in senso totalitario, dopo perdippiù un nuovo rifiuto di scarcerare Enzo Tortora), alza il suo indice inquieto e mai in quiete e, in un’intervista a “La Sicilia” del 31 dicembre, pronuncia poche parole. Bastano ad accendere la miccia: “E’ la solita storia della politica della Chiesa che benedice anche le bandiere di guerra. E però le cose che la Chiesa fa in un senso o nell’altro ormai non contano tanto. Bisogna chiedersi che rilievo hanno nella coscienza dei fedeli. Io credo che non ne abbiano perché non ci sono fedeli”. Il 6 gennaio 1984 sullo stesso giornale mons. Rizzo replica con una causticità pari alla sua dottrina teologica: “La Chiesa ha sempre cantato i funerali dei suoi denigratori e dei suoi calunniatori. Vorrei ricordare a Sciascia quello che ha detto Paolo VI parlando all’Onu, e cioè che la Chiesa è esperta in umanità. Che poi la Chiesa non incida o incida meno, questo penso che sia soltanto un giudizio personale del professore Sciascia, perché vediamo che le chiese sono piene non di gente che non ha fede come lui osa pensare ma di gente che crede”. 
Il 14 gennaio Sciascia, ricordando con conforto la longevità di Voltaire, vissuto fino a 84 anni, fa gli scongiuri al vaticinio del vescovo che spera in sostanza di avere notizia di suoi prossimi funerali: “Lascio ai cattolici di giusta inquietudine - capaci cioè di domandarsi e di domandare - una seria meditazione su questa frase di un loro vescovo. Per conto mio ne preferisco una faceta. Ed è questa: che se io morissi mentre è ancora fresca nella memoria dei lettori di questo giornale la frase del vescovo, i cattolici superstiziosi (e sono tanti) trarrebbero convincimento che Dio, preso atto delle parole del vescovo, abbia adottato il provvedimento che faceva al caso; mentre i laici superstiziosi (che non sono meno numerosi dei superstiziosi cattolici) al vescovo attribuirebbero patente di jettatore. Sicché al vescovo conviene ora pregare che la fine della mia vita vada un po’ oltre, nel tempo, la memoria dei lettori di questo giornale”.
Oggi mons. Rizzo non è più vescovo e nemmeno pentito: “Lo rifarei, ma non ne vado fiero perché credo nello sviluppo armonico delle nazioni. Con Sciascia, in privato, abbiamo poi chiarito. Gli dissi che era caduto in una trappola, perché quelli erano tempi in cui bisognava schierarsi. Sciascia, persona intelligente e onesta, nel suo intimo ha condiviso la scelta fatta da questo suo ‘amico’, coerente nell’adempimento del suo dovere di vescovo al servizio della verità e del suo popolo, pur in una crocifiggente situazione contingente in cui era costretto ad agire”. 
Ed è allora chiaro, dalle parole di oggi del vescovo, quanto probabilmente gli disse Sciascia quando chiarirono: che irretito dall’obbligo di schierarsi imposto dalle circostanze era stato lui, il vescovo. Il quale non fa mistero di avere ricevuto anche la solidarietà pubblica del numero uno del fronte comunista di Comiso, Giacomo Cagnes, ex deputato, presidente del Comitato per il disarmo, capo indiscusso del movimento pacifista, e soprattutto antiamericano d’eccellenza: all’accusa rivolta al vescovo di avere impedito con il suo gesto la presa del potere comunale da parte del Pci, Cagnes disse duramente: “Il vescovo ha fatto il suo dovere”. Forse furono le sue ultime parole famose, perché di lì a poco sua figlia si innamorò perdutamente di un soldato yankee e, andando a vivere in America con lui, portò con sé anche il padre. Che oggi, vent’anni dopo, è un americano felice e contento.

Pubblicato su La Stampa "Tuttolibri" il 19 aprile 2003