venerdì 9 febbraio 2018

La mafia non è ancora un pezzo da museo



Il rifiuto di cui nel suo Passaggio in Sicilia (Giunti, 2016) dà conto Massimo Onofri, contrario a seguire i suoi amici “nel regno della mafia” (per visitare cioè Montelepre, Partinico e Corleone), perché la conoscenza libresca che ne ha, letteraria e storiografica, gli è preferibile alla visione diretta dei luoghi, non consolida soltanto il primato dei libri, ma solleva anche una questione che viene oggi affrontata in maniera antifrastica: l’allestimento di musei, centri di documentazione sulla mafia e l’antimafia, esposizioni itineranti, che volendo proporsi come mezzi di conservazione della memoria non ne diventano invece che strumenti di diffusione ideologica se non templi per l’edificazione del loro mito.
Dopo quelli di Corleone e Salemi, anche Palermo ha vagheggiato l’idea di un museo della mafia, da intendere come galleria del male e teatro della sua rappresentazione, alla stregua di una Auschwitz di altra disumanità. Ma una cosa è visitare un lager nazista nella consapevolezza che non sarà mai più attivo e un’altra sfogliare l’album del nostro tempo e avere coscienza che l’orrore in mostra è lo stesso - o può essere lo stesso - di quello che incombe in giro. 

La decisione di Onofri, critico letterario e siciliano di educazione, di non mettere piede nelle terre d’elezione della mafia, nasce anche dal fatto che gli eventi alla base della loro fosca e per questo seducente notorietà sono tutt’altro che storicizzati e che le figure artefici dei fatti grondano ancora sangue. Visitare un museo della mafia può dunque equivalere a una visita sul luogo di un delitto appena compiuto o in un campo di battaglia ancora fumante. Sennonché il presupposto che adducono musei come quello di Salemi è che la mafia sia morta e che dunque possano esserne esposte senza rischi le spoglie a futura memoria e ammonimento. 
Ma la vicinanza dei fatti messi in esposizione e gli sviluppi cui tutt’oggi si assiste determinano nel visitatore un effetto appunto di natura ideologica, nel senso che inducono a una reazione e impediscono di estraniarsi: come è successo ad alcune persone che sono state colte da malore alla vista dei “reperti” del museo di Salemi, alcuni anditi del quale sono vietati ai minori di 14 anni non tanto perché presentano immagini troppo cruente quanto perché quelle immagini sono ancora troppo attuali. Il risultato è di risvegliare una memoria che appartiene non già alla storia ma al nostro presente.
Mostrare il male per un intento educativo può essere utile solo quando si è fuori pericolo, altrimenti anche l’antidoto - ovvero l’antimafia - può tradursi in un modo per ideologizzarlo. Alla stessa maniera, persino volgere la mafia in grottesco, come hanno fatto Roberta Torre, Ciprì e Maresco fino a Pif, può rivelarsi un canale di diffusione di un germe che si nutre anche di morbosità e gusto dell’orrido oltre che di concreto interesse storico e sociologico.
Non visitare allora, come Onofri, i luoghi della mafia e valersi di quanto sappiamo dai libri, anche quelli apologetici così pervasi del più corrivo sicilianismo, significa assumere una posizione di sicurezza ed evitare la vista del male. L’incontro ravvicinato con esso muove essenzialmente da intenti turistici e perciò economico-speculativi, laddove la conoscenza della mafia attraverso i libri agisce entro uno spirito epistemologico-culturale e scongiura che il fenomeno mafioso sia visto nella luce di un’epica, di una stagione di superuomini, cattivi quanto si vuole e forse perché tali simili a riviviscenti pokémon presenti in mezzo a noi, da catturare per osservarli e ammirarli. 
Fare della mafia e delle sue roccheforti un’industria del turismo, con gadget e souvenir nei negozi, aprendo musei addirittura, può comportare il rischio di creare un circo del tipo di quello di Buffalo Bill che volle promuovere l’epopea del West in pieno Far West con pistoleri e indiani presi dai saloon e dalle praterie. La mafia invece andrebbe trattata come Vitaliano Brancati faceva con le malattie, che non bisogna guardare altrimenti si ringalluzziscono. Con il rischio, è vero, di morirci, come successe a lui per avere ignorato una cisti. Che fare? L’immagine del pastore di Ilio che pascola le pecore mentre guarda da lontano la sua città presa d’assalto può servire a correggere l’atteggiamento comune da tenere nei confronti della mafia. Che purtroppo è ancora un problema attuale e non un pezzo da museo.