sabato 29 settembre 2018

Mario Ciancio davanti al tribunale speciale della storia



Sul caso di Mario Ciancio due riflessioni connesse vanno sicuramente fatte. La prima è questa: non sarebbe stato possibile a nessuno gestire a Catania per quarant'anni un giornale così potente - oggi non più da un decennio - senza scendere a patti o fare i conti con la mafia. La seconda, consequenziale: anche quando avesse operato senza alcuna implicazione mafiosa, questo potere sarebbe stato tale da dovere rivaleggiare con Cosa nostra oppure esserle inevitabilmente complementare nel controllo di Catania e della sua provincia.
Entrambi i poteri, quello mafioso e quello economico-imprenditoriale (che comprendeva, negli anni della loro maggiore e concomitante influenza, oltre ai "cavalieri dell'Apocalisse" senz'altro anche Ciancio), sono stati nell'ultimo trentennio del secolo scorso e nel primo decennio di questo talmente invasivi da non potersi reciprocamente ignorare - ancor più perché i rispettivi interessi gravitavano sullo stesso territorio - e da rendere peraltro difficile stabilire quale fosse prevalente. Il teorema di Giuseppe Fava, vittima sia dell'uno che dell'altro, postulava una cointeressenza fondata su uno scambio di contributi che non necessariamente supponeva una esplicita collusione, potendo i due sistemi operare autonomamente nel perseguimento di obiettivi che finivano per avvantaggiare entrambi. 

A distanza di 34 anni, lo stesso delitto Fava va apparendo proprio in questa ottica: una imprecazione contro la sua attività giornalistica pronunciata in qualche salotto e giunta alle orecchie della mafia che si assume l'incombenza di dare risposta all'augurio di alcuni grossi imprenditori per poi aspettarsi di essere altrimenti ricambiata: senza che si possa dunque parlare né di mandanti né di  esecutori. Entro questo rapporto tacito e pluridecennale, il ruolo di Ciancio come editore non può essere stato, per la personale statura economica e per il grande peso del giornale, di estraneità in una città dove un tempo era inconcepibile un'attività che influenzasse quanto la stampa la gestione della cosa pubblica. Per dare l'idea del condizionamento de "La Sicilia" negli anni Ottanta, quando vendeva nella sola Catania quasi quarantamila copie al giorno, basterà ricordare che il capocronista Salvatore Nicolosi era in grado di determinare con un suo articolo della domenica la caduta immediata della Giunta comunale. Non solo. Era voce diffusa che  "La Sicilia" avesse la forza politica di fare eleggere almeno due deputati nazionali e regionali, a prescindere dalla loro coloritura politica, e che per questo Mario Ciancio si sia distinto nell'attestarsi sempre e puntualmente su posizioni filo-governative, osservando un milazzismo di proprio conio che gli ha permesso di dichiararsi sempre apertamente apartitico e improntare la conduzione del giornale, rigorosamente ponendosi a capo di esso come direttore responsabile, alla logica del profitto personale, come del resto fa ogni imprenditore che investa nei giornali, visti al pari di mezzi di pressione e di persuasione. E che questo sia stato il suo vademecum è dimostrato dalle accanite battaglie ingaggiate contro ogni tipo di giornale o giornalino che nascesse a Catania, nel proposito di detenere il monopolio dell'informazione così da essere la voce unica e più perentoria, posizione questa divenuta totalmente dominante con l'acquisizione del solo organo che potesse costituire una concorrenza e cioè Telecolor, già proprietà di uno dei quattro cavalieri finiti nel mirino della giustizia, e ben sapendo che altre realtà, compresa la stessa Rai regionale, non avevano la sua stessa autorità.Ma è successo che fino a quando "La Sicilia" ha detenuto un potere che ha consigliato a ogni ministro di passaggio a Catania di rendergli visita di omaggio e, a scendere, ad ogni autorità locale e regionale di compiacerlo e lusingarlo, Ciancio è rimasto immune da provvedimenti giudiziari, pur non potendo zittire le voci che alimentavano intanto sospetti sulle sue mene, ma quando il giornale si è ridotto alla poca cosa che è oggi (vendite miserrime, stipendi in ritardo, prepensionamenti di massa, collaboratori non pagati da anni, debiti con i fornitori, massimo contenimento delle spese) il suo potere si è assottigliato e insieme con esso si è incrinata la sua intoccabilità. Ma a questo punto va fatta un'equazione: così come non era possibile negli anni ruggenti che un quotidiano assumesse un peso quasi maggiore a quello di un'amministrazione comunale senza che la mafia non approvasse o tollerasse, oggi non è possibile supporre che, ben calato il potere del giornale, Ciancio possa ancora confrontarsi alla pari - o alla pari colludere - con la mafia che del suo peso ha perso ben poco. E infatti la magistratura ha escluso la potenziale pericolosità sociale di Ciancio, che è rimasta ferma al 2013: ragione per cui, diminuita la mafiosità, si è ridotto anche il prestigio. Perciò se concorso in associazione mafiosa c'è stato, esso risale ad anni storicizzati il che naturalmente non prescrive alcun reato, ma induce a osservare i fatti sotto la luce del prima e del dopo: un oggi che chiede allo ieri di pagare i conti quando i danni fatti sono ormai diventati irrimediabili. Cosa sarebbe stata infatti Catania senza l'egemonia asfissiante di Ciancio? Come sarebbe cresciuta la classe giornalistica se avesse avuto la possibilità di operare in un sistema pluralistico dell'informazione con la presenza di altre testate locali? E quale volto avrebbe avuto la città? Quali sarebbero state le sue diverse dinamiche civili e sociali se altri imprenditori fossero stati incoraggiati a investire nell'informazione così da offrire più voci e dunque più spinte progressive non solo a Catania ma anche nelle province di Siracusa e Ragusa, anch'esse poste sotto lo scettro di Ciancio?

L'effetto più pesante che il dominio di Ciancio ha determinato non è stato tanto la supposta prossimità a Cosa nostra quanto lo strozzamento di ogni impulso al pluralismo piegato alle ragioni del proprio vantaggio economico e politico. Paradossalmente la colpa più grave non è quella che lo ha portato a subire l'umiliante provvedimento della confisca dei beni per l'imbarazzante accusa di contiguità con la mafia, ma quella di sfruttamento spregiudicato di ogni opportunità economico-finanziaria, condotta questa che gli ha guadagnato addirittura dei premi come riconoscimento al suo talento imprenditoriale il quale di per sé esclude ogni responsabilità penale. 
In questa prospettiva, ammessa e non provata la sua innocenza, se come imprenditore non ha potuto sottrarsi a pressioni mafiose che possano averlo indotto, secondo l'accusa della Dda, a mettere il giornale a sostegno di interessi mafiosi e agire personalmente a favore di alcuni progetti speculativi di uguale natura, e se come imprenditore non ha agito che al pari di qualunque altro al mondo, tuttavia come catanese, come siciliano, come giornalista e soprattutto come editore, Ciancio ha operato pervicacemente contro gli interessi pubblici e della Sicilia, regolando la formazione della categoria dei giornalisti (che nel suo giornale si sono sempre divisi tra quanti raccolgono punti-fedeltà e fanno carriera e quanti raccolgono invece punti-qualità e sono spinti, come Fava e Milazzo, a dimettersi), condizionando gli indirizzi politici, turbando le istituzioni, scoraggiando intraprese editoriali di ogni genere e imponendo una forma di totalitarismo che ha fortemente frenato la crescita della Sicilia. E' questa la sua colpa maggiore e irredimibile. Quella di concorso esterno alla mafia e di essersi arricchito con entrate ritenute sospette e messe in parte al sicuro all'estero sembrano veniali al confronto e comunque di minore effetto. I giudici del tribunale potrebbero punirlo con una pena che non potrà essere quella comminata dalla storia.