Pur nella labile sottigliezza della distinzione, non c’è mai una visita di un papa in Sicilia che non sia di tipo pastorale più che apostolico, dunque con un antico e originario senso correttivo e ammonitivo, paolino possiamo dire – e Paolo di Tarso fu tre giorni in Sicilia esortando e ravvedendo le prime comunità cristiano-giudaiche d’Europa. C’è sempre una ragione legata al momento storico a portare ogni pontefice al di qua del Faro. Bergoglio torna domani (cinque anni dopo la messa celebrata davanti al mare di Lampedusa, cimitero di migliaia di migranti) per commemorare don Puglisi e probabilmente per rilanciare il famoso monito di papa Wojtyla contro l’insorgenza mafiosa. Nel suo lungo pontificato Wojtyla venne cinque volte e la prima per visitare la Valle del Belice e le popolazioni terremotate. Ratzinger, nel suo unico viaggio, esortò i giovani a non arrendersi alla mafia, depose una corona di fiori a Capaci e ricordò anch’egli don Pino Puglisi.
C’è nell’impulso degli ultimi papi come un richiamo a prestare soccorso alla Sicilia, facendo quanto i precedenti hanno evitato, Paolo VI limitandosi per esempio a ricevere nel 1977 i vescovi siciliani in Vaticano. L’attenzione della Santa sede è cambiata dopo la ruggente omelia del cardinale Pappalardo ai funerali di Dalla Chiesa, quando il presule alzò l’indice verso Roma che tergiversava a intervenire mentre Sagunto veniva espugnata. Solo due mesi dopo il papa polacco fu a Palermo e nel Belice, il solo che a Roma ascoltò il grido di dolore levato in Sicilia dalla sua stessa Chiesa. Una Chiesa composta da un clero sociale e popolare che non si mai fermato, forte dell’educazione ricevuta dal magistero di don Sturzo, dietro gli altari ma, specie sul fronte della mafia, ha superato senza esitazione alcuna i sagrati delle parrocchie per andare in piazza e brandire il vangelo.
In questo spirito, quel 4 settembre di 36 anni fa l’urlo accorato e indignato del cardinale Pappalardo, che evocando Tito Livio accusava il potere statale, cominciò a propagarsi nel Paese ma soprattutto ad echeggiare nel tempo fino a giungere ai nostri giorni. Francesco torna quindi in Sicilia sull’onda acustica di quella impetrazione che lanciata dalla cattedrale di Palermo continua a risuonare anche nella basilica di San Pietro, impetrazione che per primo, nel 1993 ad Agrigento, raccolse poi Giovanni Paolo II il quale si rivolse, con tono altrettanto veemente e solenne, non più allo Stato rimasto intanto sordo ma direttamente ai mafiosi diffidandoli dal rimanere ancora senza Dio. Anche quel giorno di maggio segnò una data cruciale nella storia della Sagunto “terra di nessuno”, così come pure il giorno della visita di Francesco a Lampedusa nel mare di tutti.
In realtà, già dagli anni Venti (con l’uccisione per mano mafiosa di monsignor Costantino Stella, arciprete di Resuttano, e di monsignor Stefano Caronia, arciprete di Gibellina) la Chiesa cattolica militante non ha mai esitato in Sicilia a sporcarsi le mani rincorrendo ogni emergenza sociale e umanitaria, operando così sulla coscienza siciliana con risultati di gran lunga superiori alla politica e alle istituzioni quanto innanzitutto alla condanna perentoria e senza concessioni della presenza mafiosa. Per le sue parole Pappalardo ebbe assegnata la scorta e anche il precedente vescovo di Piazza Armerina (non a caso tappa del viaggio di Bergoglio) Michele Pennisi ebbe una protezione armata, perché minacciato di morte dalla Stidda gelese per essersi rifiutato di celebrare il funerale di un boss.
Pino Puglisi, il prete sorridente e presago della morte, è stato l’ultimo e più eroico martire, ma decine di sacerdoti in tutta l’isola ogni giorno fanno professione di fede portando tra la gente non solo la Parola di Dio ma anche la propria e con essa un apostolato inteso a migliorare la vita terrena. La testimonianza di sacerdoti come Cosimo Scordato a Palermo, Beniamino Sacco a Vittoria, Palmiro Prisutto ad Augusta, solo per citare alcuni dei tanti preti quotidianamente impegnati, rende la visita di Francesco preziosa per tenere alta la tensione sulla linea di frontiera, dalla mafia all’immigrazione alla disoccupazione alla povertà, lungo la quale il clero siciliano si è attestato come in un ridotto.