sabato 27 dicembre 2008

Gli ultimi Sgarbi


Non avendo capito in virtù di quali forze Vittorio Sgarbi sia diventato sindaco di Salemi, mi sono rifatto all’antico retaggio della città, che pur non avendo nulla in comune con la Salem puritana d’Oltreoceano, divenne famosa nella Sicilia spagnola perché sede di un inquisitore, presente in pianta stabile per via della forte vocazione degli abitanti a credere nella magia e nei forestieri.
Ma forse le cose sono andate in maniera più consona allo spirito versicolare di un colto emiliano che in verità ha lunghe frequentazioni con la Sicilia. Un emiliano che non so nemmeno quanto sia amato dai salemesi, gente non avvezza alle esternazioni e alle piazzate, gente dell’entroterra adusa alla sobrietà, refrattaria alle pantomime e ai clamori. Sgarbi invece non fa passare giorno senza scagliarsi contro qualcuno, avendo bisogno di crearsi un nemico quotidiano per restare sulla cresta e mantenere il blasone del polemista che lo ha reso celebre. Dopo Sonia Alfano (nella quale, pavesando un lucco di mafiologo del tutto inedito, è riuscito addirittura a vedere un’emula dei trascorsi «professionisti dell’antimafia»), l’ultimo suo bersaglio è stato Andrea Di Consoli, che in un articolo sul “Riformista”, pur lodando la Salemi sgarbiana e inanellando più di un apprezzamento nei suoi confronti e in quelli della sua opera, si è attirato le ire dell’iracondo sindaco non solo per avere affermato che la mafia c’è ma anche e forse soprattutto per avere scritto che alloggia a scrocco al Kempinski, un hotel che Di Consoli dal basso delle sue sostanze ha visto lussuoso e che Sgarbi dall’alto dei suoi mezzi ritiene invece appena sufficiente ad accogliere la sua onusta maestà. 
In un’avvelenata lettera allo stesso giornale, nella quale è riconoscibilissima tutta la bile in trabocco, bava compresa, dell’intemperante ex parlamentare, ex critico d’arte, ex assessore, ex presentatore televisivo, neo ospite di trasmissioni pomeridiane, neo sindaco e neo mafiologo, lo Sgarbi che dopo essersi montato la testa adesso se l’è pure cinta di alloro rivela che al Kempinski non solo non paga ma viene addirittura pagato, perché la sua presenza fa immagine e dunque attira clientela. 
Se è così, e non abbiamo motivo di dubitarlo, non può certo starsene nella sua camera a ripassare – o ricopiare – testi d’arte, ma è costretto anzichenò a mostrarsi nella hall se non anche a ostentarsi davanti all’ingresso accanto ai facchini. E ci sembra di vederlo ravviarsi i capelli sempre meno biondi e più bianchi, tirarsi gli occhiali sul naso e la pelle sotto il mento e magari attaccare briga con qualche passante per fare scena, immagine appunto. Sarebbe comunque curioso sapere quanto tempo impiega a fare da testimonial al Kempinski, per potere poi mettere insieme la cena e il pernottamento a scrocco, assicurandosi cioè un ticket gratuito che lui stesso ammette di incassare dando così ragione a Di Consoli. E quanto quindi ne sottrae alle incombenze di sindaco, se impegna gran tempo anche per scrivere ai giornali, andare in giro a presentare il suo libro, che pare sia proprio autentico stavolta, occupare poltrone in studi televisivi, polemizzare, che è il suo vero mestiere. Fatti suoi e dei salemesi che lo hanno voluto primo cittadino: ragionando forse come quei contadini che si comprano la fuorisede per fare figura ma poi continuano ad andare in campagna con l’asino. 
Fatti nostri invece sono gli aspetti che riguardano le sue esternazioni in tema di mafia. Di Consoli ha scritto una verità nota a tutti: che la mafia c’è, eccome. A Salemi come altrove. Né potrebbe essere diversamente per chi ha un minimo di conoscenza di cose siciliane. Solo un continentale o un mafioso può dichiarare che la mafia non c’è più. Senonché nella foga di saltare alla gola di Di Consoli, il sempre più rabbioso e permaloso Sgarbi dice una cosa e il suo contrario: prima concede che i mafiosi esistano e pratichino attività criminali, poi dichiara che a non esistere più è «la mafia nel senso di intreccio tra criminalità, potere economico e potere politico» e infine cita un’intervista del procuratore antimafia Grasso (quello che al momento in cui arrestò Provenzano gli chiese cosa potessero fare insieme mafia e Stato per il bene della Sicilia, sentendosi dal boss rispondere che ognuno ha il suo ruolo) e ne fa proprio il ragionamento in ciò, che la mafia non è scomparsa ma si è destrutturata, cioè è diventata un’altra cosa. Che si sia destrutturata e quindi ristrutturata è acquisizione a conoscenza da gran pezza di ogni siciliano, ma per Sgarbi costituisce invece una grande rivelazione. Preso a fare da testimonial al Kempinski per dormirci a scrocco, Sgarbi non si è accorto che l’accrocco mafia-politica-finanza è ben attivo in base a una presunzione documentata dalla storia: quando la mafia non fa rumore e non uccide è segno che prospera, non che è in letargo. Se pretende di passare alla storia come un novello Cesare Mori o se ama credere e fare credere di vivere (quando ci vive) in una nuova Mecone, temo che Sgarbi commetta l’errore di tutti i capipopolo della storia siciliana, diventati re lo spazio di un mattino e il tempo di una concessionea termine. 
Bocciato in mafiologia, gli si può allora consigliare di tornare a occuparsi d’arte? Piano, perché se non copia o fa copiare, rimedia rovesci come gli capitò a Lentini dove prese per autentica una copia d’altare; o come avvenne in una trasmissione televisiva quando s’incaponì a dimostrare perché in un quadro l’artista avesse voluto dipingere frutti diversi, finché uno spettatore gli fece notare che si trattava di frutti di stagione e che, volendo dipingere una natura morta, le varietà non potevano essere che quelle. Eppure è proprio lo Sgarbi studioso d’arte quello preferibile agli altri suoi doppi. Lo ricordo negli anni Ottanta, quando – ancora sconosciuto – tenne a Ragusa un intervento sugli affreschi del Gambellotti in prefettura, davanti a un ammirato Sciascia che si chiedeva, come gli altri, chi fosse e a una bella donna annoiata seduta in un angolo. Gli riconosco poi parte del merito circa il riconoscimento della «scuola di Scicli» che fa capo a Guccione. Mi sono inoltre piaciuti parecchi dei suoi libri, dati con competenza. 
C’è in questo uomo camaleontico e dal fascino indiscutibile uno studioso serio che però non piace a se stesso e che ama farsi male e fare male. L’elemento dionisiaco vince quello apollineo e fa di uno specialista d’arte un esperto uomo di mondo che al sussurro del poeta ha preferito l’urlo del politico. E che vuole usare l’arte per fare di se stesso e del suo mondo un’opera d’arte. Purché adesso non gli venga in mente di fare da Salemi, bella e suggestiva come un paese atopico d’Atlante quale l’ha resa, concorrenza alla vicina Gibellina e ricreare una seconda città dell’utopia. Un comune siciliano senza mafia e senza anima sarebbe davvero troppo.