Nello Zibaldone Leopardi dice che la civiltà progredisce da sud verso nord e che è meridionale se antica mentre la moderna è settentrionale. Il divario Nord-Sud non è dunque che nella storia dell’Italia come dato di natura. Ma Leopardi intende riferirsi alla civiltà letteraria e lascia dunque che le sorti, magnifiche e appunto progressive, di un Paese sia la storia stessa a deciderle. È con la storia allora che bisogna fare i conti.
Si può comunque partire da un riferimento letterario. Nel romanzo Il processo di San Cristobal George Steiner, ebreo parigino, muove al nazismo l’accusa di avere favorito, con la Shoah e per reazione ad essa, la nascita dello Stato di Israele, frutto quindi di un atto di violenza che avrebbe sortito un esito non previsto. Anziché riconoscere semmai un merito, Steiner accusa Hitler proprio perché il nuovo Stato è sorto a un prezzo inaccettabile di vite umane e di dolore.
Della stessa matrice sarebbe anche l’Unità d’Italia, il risultato cioè di un atto di conquista portato in stato di guerra dal Piemonte al Meridione al costo di indicibili e rimossi atti di disumanità. A un secolo e mezzo dall’impresa dei Mille, l’unificazione appare una storia da riscrivere nella parte che riguarda anche la stessa volontà del Meridione di annettersi al Piemonte. Al di là di estemporanee iniziative come il movimento neoborbonico legittimista, che da Napoli si è esteso in tutt’Italia, o la richiesta dei danni di guerra da parte di Gaeta al governo italiano, o ancora il florilegio di associazioni nate in chiave folcloristica a maggior memoria del regno duosiciliano, dal secondo Dopoguerra in poi si sono andati moltiplicando i ricercatori che con rigore e scrupolo si sono messi sulle tracce di documenti sepolti o distrutti.
Per ultimo, un giornalista pugliese, Pino Aprile, lavorando per decenni a un libro che ha abbandonato una dozzina di volte, ha raccolto adesso i risultati delle ricerche altrui fin qui sostenute, le ha arricchite e ne ha fatto una pesante requisitoria antipiemontese, priva di ogni concessione a sentimenti unitari e ad emozioni celebrative: un libro intitolato provocatoriamente Terroni che non dà conto alcuno dei sinceri intenti liberali che, sulla spinta degli ideali mazziniani, mossero Cavour e Garibaldi a rilanciare un’istanza plurisecolare circa l’unificazione in Stato di una nazione compresa già dal Duecento nell’idea di un’Italia soltanto letteraria – istanza generalmente condivisa, ancorché Aprile riferisca che solo l’1-2% della popolazione volle il Risorgimento.
A prescindere dal tono perentorio della ricerca, conta il risultato: Aprile risistema e allinea episodi agghiaccianti quanto oscuri di veri e propri crimini contro l’umanità, tali da dover ritenere riaperta la questione meridionale in termini non più di problema ma di processo. L’elenco delle atrocità è lunghissimo, ma nessun libro di testo ne ha portato finora uno solo a scuola, né la storia ufficiale ne ha acquisito le scoperte. Purtuttavia il ministro Tremonti si è sentito di dover riconoscere che il Meridione paga ritardi imputabili a precise responsabilità della storia. Ritardi economici che si sono tradotti in svantaggi sociali: prima del 1860 Napoli è la seconda città d’Europa dopo Parigi e la Campania vanta il reddito pro capite più alto d’Italia oltre che il primato per la qualità della vita. Nell’intero Meridione l’emigrazione è sconosciuta e invece del brigantaggio come fenomeno politico facilmente traducibile, una volta assimilati i fuorileggi ai ribelli, in insurrezionalismo antisabaudo, e quindi da soffocare duramente, agiscono solo briganti, una presenza cioè ridotta a mero problema di polizia. L’emigrazione nasce invece dopo l’Unità quando invale la deprecatio temporum e il sentimento meridionale si muta in risentimento antisavoiardo nonché in nostalgia borbonica per via delle vessazioni, del regime di oppressione e della impietosa pressione fiscale.
Anziché ribellarsi i meridionali scappano all’estero in milioni depauperando il Sud. Chi resta si dà alla macchia e si unisce a bande che pur coltivano odi aperti nei confronti di un esercito dei cui soldati non capiscono nemmeno la lingua e che si distingue per una ferocia sconosciuta. Due casi bastano: anticipando i nazisti nell’uso della rappresaglia come mezzo di deterrenza antiterrorismo, i bersaglieri a caccia di guerriglieri massacrano due intere popolazioni radendo al suolo i paesi molisani di Casalduni e Pontelandolfo. Le testimonianze lasciate dai soldati nei loro diari, ritrovati solo un secolo dopo, sono da brivido: donne stuprate anche da venti militari e poi uccise, pastorelli fucilati perché anziché dire “Vittorio Emanuele” fanno il nome di “Francesco” solo perché l’hanno sentito dire; contadini e anziani sventrati per risparmiare pallottole; chiese date alle fiamme con dentro paesani nascosti; uomini costretti a scavare una fossa, fucilati in massa alle spalle e poi sotterrati finché, sotto una scuola, non saranno trovati decenni dopo duemila cadaveri.
Le cifre molto approssimate parlano di un milione di meridionali sterminati e di venti milioni di emigrati. Un recente studio condotto su basi macroeconomiche ha dimostrato che prima dell’Unità il reddito pro capite del regno borbonico è pari a quello degli altri Stati italiani e che solo nel 1921 il Sud diventa area sottosviluppata. Ancora fino al 1911 la Campania è allo stesso grado di ricchezza della Lombardia. Poi la Grande Guerra riunisce “nordici e sudici” nelle trincee mentre separa l’Italia del Nord da quella del Sud che comincia a indietreggiare. Gramsci può quindi dire che “l’Unità non è avvenuta su una base di eguaglianza ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno”.
E Sturzo può rivelare una verità che ancora oggi stenta a farsi strada: “Il sudato risparmio meridionale fu pompato dallo Stato a mezzo di tasse o di rendite pubbliche o buoni del Tesoro per benificiare il Nord”. La questione meridionale nasce quando il Meridione viene spogliato delle sue ricchezze e delle sue risorse per incrementare lo viluppo delle regioni settentrionali. Esemplare il caso di Mongiana, un paesino calabro che nell’Ottocento è la capitale europea della siderurgia, fiore all’occhiello dei Borbone. I piemontesi la penalizzano fino ad azzerarla favorendo la siderurgia settentrionale, meno avanzata e priva di know how. La politica torinese di industrializzazione del Nord punta a portare gli operai dove ci sono le fabbriche e non viceversa: questo significa privare il Meridione non solo di risorse e di lavoro ma anche di mariti, figli e padri che partono da soli nella speranza di tornare e che lasciano la famiglia, fulcro della società meridionale, a sgretolarsi e favorire l’insorgenza della criminalità. Quando arrivano, la Casmez e la riforma agraria non risollevano le condizioni del Sud ma stabilizzano il nuovo ordine, fondato sul dualismo economico di un Nord alacremente in via di sviluppo e di un Sud fornitore di manodopera a basso costo.
Nasce e si consolida quindi una forma di apartheid regionale che porterà agli avvisi davanti ai locali del tipo “Ingresso vietato a cani e meridionali” e più avanti alla nascita del fenomeno leghista. Di fronte alla crescita del quale, risospinto anche dall’adesione di molti meridionali ormai della diaspora e preda della martogliana “aria del continente”, Aprile osserva come mentre un settentrionale non ha bisogno di essere leghista, un meridionale non può farne a meno: è l’ultima tappa del processo di evoluzione della specie meridionale cominciato dall’unificazione del Paese. Con parole colorite Aprile dice che quando il carnefice ti toglie tutto, l’ultimo punto di riferimento che ti rimane è il carnefice stesso.
In realtà il meridionale non ha mai fatto niente per risollevare il proprio orgoglio mentre ha vissuto sempre la sua condizione con un senso di forte vergogna che lo ha indotto a cambiare la propria natura in quella di settentrionale cominciando con l’assumere un nuovo accento. Aprile parla di assuefazione alla vergogna, ma questo suo libro sembra volere ridestare l’orgoglio dismesso.
Rispetto ai tantissimi libri che hanno fatto opera di revisione della storia del Risorgimento, il suo sta avendo una maggiore visibilità. Pensa a un risveglio della coscenza meridionale?
Credo siano accadute tre cose: 1) questo libro, che doveva essere il mio primo, alla fine è nato come settimo, perché l’argomento mi intimoriva e non mi ritenevo mai soddisfatto dalla documentazione raccolta (è infinita, a volerla cercare); 2) ero frenato da una riflessione: giganti come Salvemini, Fortunato, Dorso, Rossi Doria, Nitti e tanti altri hanno scritto, dimostrato. Eppure, si è rimasti sostanzialmente sordi alle loro voci (a parte due brevi periodi agli inizi del Novecento e dopo la fine della Seconda guerra mondiale). Perché? Essendo indiscutibili la forza dei loro argomenti e la loro autorevolezza, mi è parso di vedere la ragione nella professionale distanza dei loro toni. Così, ho scelto di condividere (perché veri, dunque dichiarati) la sorpresa, il disorientamento, la rabbia, il dolore del lettore. Insomma: i dati e i sentimenti che generano; 3) quei sentimenti, nel disinteresse del Nord, sono acuiti dagli insulti razzisti della Lega (“topi”, “parassiti”, “terremotati”…). Questo mi spiega la risposta al libro.
Terroni è scritto dalla parte dei meridionali con i quali (essendo tale) lei si schiera apertamente. Non è un libro che sposa le ragioni anche del Nord ma del solo Sud. Questo non favorisce certamente il superamento del divario.
Lo favorirebbe il silenzio del Sud al crescente insulto leghista e alla rapina (decine di miliardi di euro di fondi Fas dirottati, contro legge, da Sud a Nord)? Dichiaro, nel libro, che da 150 anni si parla solo dei difetti del Sud e dei pregi del Nord, tralasciando come insignificanti o non credibili i pregi del Sud e i difetti del Nord. Il divario si supera sapendo: a Nord e a Sud. È dai lettori settentrionali che ottengo le reazioni più interessanti. Intrattengo lunghe discussioni e proficue, con loro, on line. Non ho mai pensato di scrivere un libro “per i meridionali”, ma per gli italiani. Da italiano e da meridionale.
Il suo libro così arrabbiato sembra un manifesto, una specie di invito alla riscossa. Alla fine viene prefigurata una forma di governo del Sud ombra, seppure con l’avvertenza che il Mezzogiorno da solo non andrebbe da nessuna parte.
Le pagine del libro sono calde, perché portano anche sentimenti. Viene scambiata per diritto la rabbia del Nord che discrimina e ruba (ma in quale Paese si sarebbero mai pagate le multe degli allevatori e produttori di latte disonesti della parte più ricca d’Italia, con i soldi sottratti alle aree più svantaggiate?); mentre diviene pericolosa la reazione del discriminato e derubato? Il governo ombra del Sud è nato anni dopo quello leghista, ma per difesa, non per aggressione; e se, estrema ratio, il Mezzogiorno dovesse andarsene da solo, rischierebbe il disastro o la sua fortuna. Ma, almeno, dopo 150 anni, avrebbe la possibilità di farsi costruire, magari dai francesi, la stazione ferroviaria a Matera e di non farsi tagliare altri mille chilometri di ferrovia, dal Dopoguerra a oggi.
Perché la verità storica non riesce a passare? Si festeggia il 150° anniversario dell’Unità ma nella realtà dei fatti, lei sostiene, ricorre per il Sud il 150° del suo declino come potenza economica europea.
Si festeggia la vittoria del Nord e la sconfitta del Sud, non l’Unità del Paese. Un esempio? Si guardi dove si spendono i soldi della Commissione per le celebrazioni dell’anniversario, per “tagliati” che siano. O si vada a Vicenza, dove, ogni anno, a nome dell’Italia unita, il sindaco depone una corona d’alloro in onore del colonnello Pier Eleonoro Negri, sterminatore (con libertà di stupro e saccheggio) di Pontelandolfo e Casalduni, cinquemila abitanti uno, tremila l’altro; e ancora non si sa quanti ne furono massacrati. Rimasero in piedi, dei due paesi, solo tre case. Il sindaco di Vicenza vada a spiegare a Pontelandolfo e Casalduni che sta celebrando l’Unità. Negli Stati Uniti gli eroi della guerra civile, nordisti e sudisti, sono onorati nello stesso olimpo.
Lei è esplicito e parla non di unificazione ma di invasione del Sud da parte del Nord. Lager, stragi, strupri di massa, distruzione di interi paese, riduzione della popolazione a nazione vinta, malversazione, spoliazioni: l’Unità è un carosello di ignominie anziché un festival di eroismo e idealismo.
È quello che accadde; a tormento dei tanti idealisti e unitaristi, del Sud e del Nord, quando videro cosa stava succedendo: il saccheggio di un Paese, a mano armata. Fra quanti denunciarono la cosa, persino Bixio, Garibaldi, Liborio Romano. Si pensi alle amare ammissioni un asceta dell’Unità come Giustino Fortunato, lucano, o di Giuseppe Ferrari, milanese.
Il mito dei Mille si tinge dunque del rosso del sangue dei meridionali e i garibaldini asssumono la stessa qualità di carnefici dei piemontesi?
Il mito c’era (anche se Garibaldi disse che i suoi Mille erano, per la maggior parte, avanzi di galera); la speranza fu grande. I due terzi dell’esercito garibaldino, alla fine, erano meridionali. Vennero espulsi quando si trattò di assimilarli nell’esercito regolare. Ed ebbero, come liquidazione, 31 scudi: uno più di Giuda; il grazie e il giudizio della patria unita per il loro contributo.
Hobsbawn diceva che la mafia è stata l’unica rivoluzione possibile attuata nel Sud. Ma perché (e questo lei se lo chiede come in un mantra) i meridionali non stati capaci di ribellarsi, ieri come oggi, attuando forme di rivolta diverse da quelle mafiose?
Al Sud è stato impedito di intraprendere. E questo è dimostrato dalle scelte economiche postunitarie (investire soldi pubblici solo al Nord e ipertassare il Sud; costruire infrastrutture quasi solo al Nord), da quelle del fascismo sorretto dalla Confindustria e dagli agrari: industrie a Nord, grano a Sud; dall’appropriazione dei risarcimenti per i danni bellici subìti dal Sud, nel secondo Dopoguerra, per mano confindustriale; dalla sottrazione dei fondi Fas, oggi. Il sistema è sempre quello. E la mafia è ottima alleata di questo sistema. Non è vero che il Sud non si ribelli: andate a leggere i nomi dei martiri dell’antimafia, degl’imprenditori che si oppongono al pizzo. Tranne un paio di eccezioni o poco più, sono tutti meridionali. L’Associazione industriale che caccia i suoi iscritti se pagano il pizzo o sono collusi con la mafia è quella siciliana; la Confindustria, espressione dell’imprenditoria del Nord (il Sud ne costituisce il 7,5 per cento) ha mai espulso i potentisssimi gruppi multinazionali che costruiscono la Salerno-Reggio Calabria e mettono in bilancio il 3 per cento alla ‘ndrangheta? Sono sotto inchiesta, per dire, Impregilo e Condotte d’acqua. Le altre imprese, sono vergognosamente citate nelle sentenze… Ma quelli sono affari. Lo scandalo è al Sud, dove la mafia versa il sangue, non al Nord, dove versa i soldi.
Se il Piemonte non fosse stato così indebitato e non avesse avuto bisogno di impadronirsi del tesoro dei Borbone , avrebbe dato corso all’ideale patriottico dell’unificazione che pure era molto diffuso?
Non so. Di sicuro, i sentimenti (non solo politici) del tempo miravano alla creazione di Stati nazionali: ovvero nazioni costituite in Stati, all’interno dei “confini naturali”. L’Italia era uno degli esempi migliori di Stato-nazione incompiuto. Come l’impero austroungarico era il miglior esempio del contrario (infatti si dissolse in più Stati-nazione). Credo che saremmo arrivati lo stesso all’Italia unita e forse, federale.