Se Gomorra ha vestito Saviano di un abito nero da tenebroso inquisitore del male, giudice ieratico e angelo sterminatore, i libri che sono venuti dopo, come anche gli interventi pubblici, gli articoli e tutte le conferenze, colorano invece del candore del bianco una coscienza civile diventata quasi curiale, preraffaellita, sorprendente entro una misura che da quarisemalista si è mutata in ponteficale.
Se prendiamo Il contrario della morte (uscito come corto prima del Corriere della sera e poi riproposto nell’antologia Sei fuori posto con altri autori degli stessi pocket) troviamo come il dolore di Maria per la perdita del fidanzato morto in un attentato a Kabul non si apre a un’istanza di giustizia ma si affida a una dimostrazione d’amore capace di esorcizzare la morte. Dove dunque in Gomorra il contrario della morte era la sacralità della vita, dentro un progetto politico capace di scoraggiare l’insorgenza mafiosa, fronteggiare l’ingiustizia sociale e affermare un’idea di morte naturale, tale perché figlia di una cultura di camorra, adesso la morte appare invece come un evento innaturale e inaccettabile, ovvero per quello che è, dove il suo contrario è appunto la forza dell’amore.
La perdita di Enzo spinge Maria a elaborare il lutto nel chiuso del suo sconforto e a sfogare la rabbia invelenendosi dentro casa anziché in piazza: naturale diventa dunque non la morte ma il lutto. Eppure è chiaro anche a Maria che il suo Enzo non è rimasto vittima che di una guerra non diversa da quella di camorra nella quale è caduto Salvatore, un amico di lui. Con la differenza che mentre morire al fronte è un caso (nell’accezione classica di necessità) nel seno di un destino collettivo, morire di mafia è invece una scelta individuale e responsabile, da imputare a una perdizione anziché da accettare come una perdita, una scelta che induce emulazione, fa sentire soldati con piastrine diverse e instilla un coraggio maggiore per un altro modo di essere uomini.
Saviano vuole dirci in sostanza che la morte in uniforme non crea assuefazione e che, pure orrenda e disumana qual è, viene pianta in maniera sommessa e con una dignità che non può che venire dall’amore. Maria è una Euridice al contrario, dice Saviano, una ragazza che anziché distogliere lo sguardo dalla persona amata per non perderla, non vuole che tenerlo fisso sul suo Orfeo proprio per vivificarlo con l’amore. Ma Maria non è una figura finzionale, un personaggio di romanzo. È una persona reale che Saviano ha incontrato davvero, non essendoci mai nulla di finto nelle storie che racconta. Ciò che fa pensare che la più seria minaccia alla letteratura venga oggi proprio da lui.
La professione di verità che esercita, con la convinzione che ripone sulla parola, sublima infatti l’invenzione letteraria e trasferisce la narrazione sul piano del resoconto: la strappa al novel e la consegna al récit, volge il romanzo di fantasia in racconto esatto ed equipara giornalisti e scrittori nell’unica funzione di narratori del vero. Salvo poi accorgersi che così non è quando scrive in un articolo raccolto in La bellezza e l’inferno: “Manca un’inchiesta, manca un racconto di una tragedia, manca chi dà eco alle urla, manca chi scrive storie, chi trova colpevoli, chi fa cronaca”.
L’attacco al giornalismo italiano è inappellabile. Nel costume rinunciatario della stampa, sempre più corriva e condiscendente verso i poteri come anche i contropoteri, Saviano individua uno dei mali del presente e soprattutto la causa prima del suo stato di vittima (per fortuna in vita) della mafia, secondo il teorema per cui quanto più i giornali tacciono tanto più la sua condizione di braccato peggiora. L’obiettivo di Saviano non è di ergersi a paladino solitario contro la camorra ma di confondersi in una schiera di alfieri. In La parola contro la camorra ricorda un centometrista che a chi gli chiedeva perché corresse replicava: “Perché tu ti sei fermato”: la stessa risposta che si sente di dare a quanti si domandano perché faccia una vita infernale ormai da quattro anni.
Entro questo spirito appare chiaro che se i giornali non avessero rinunciato a inquietare, scegliendo piuttosto di consolare, Saviano sarebbe stato uno dei tanti investigatori del malaffare italiano che avremmo avuto: meno celebre forse, ma certamente non costretto a bruciare i suoi trent’anni in stanze senza finestre per sfuggire alla camorra. Che se lo cerca per ammazzarlo è perché ha fatto delle rivelazioni che hanno danneggiato i suoi affari, non certo perché ha scritto un libro del quale nessun boss si è mai chiesto se fosse romanzo o inchiesta. Intervistato a Matrix da Mentana, che indicò Gomorra come prova della forza della letteratura, Saviano ebbe modo di opporre che la forza era del racconto in sé, quale che fosse il genere. E racconto vuol dire anche rivelazione, ovvero giornalismo d’inchiesta. Ma Mentana non capì che stava denunciando un suo deficit.
Con Saviano nasce dunque un New journalism candidato a diventare l’unico modo per raccontare storie. Vere. Senonché abbiamo il rovescio: se Saviano si serve del racconto come mezzo di rappresentazione della realtà con l’uso che fa della parola, non indica alla letteratura una nuova strada, rianimandola anziché minacciarla? La strada è quella del docu-reality che costituisce un superamento rispetto alla docu-fiction. Nel momento in cui – quanto al contenuto della testimonianza da rendere – guarda al saggio, Saviano prefigura allo stesso tempo la riconversione della letteratura perché, nella forma da dare alla rivelazione, invita a raccontare.
Alla luce di un credo che celebra quindi la verità come religio delle lettere, Saviano corregge l’appello di Savino e anziché esortare a narrare la propria storia, invita (dismettendo a questo punto le autoreferenziali modalità neorealiste e l’onda lunga che ne è derivata fino a noi) a raccontare quelle degli altri, così da farsi testimoni preziosi nonché picconatori del muro del silenzio. Del suo misto di azione e pensiero si potrebbe dire quanto egli scrive di Vittorio De Seta, che “corre tra le storie e la realtà” e che fa “cinema atletico”. La sua è anch’essa una letteratura atletica, formula estetica ed etica che sente tanto del sentimento romantico quanto della ragione illuministica, volendo appunto raccontare storie come pure, soprattutto dopo Gomorra, rifletterci sopra.
Nulla di nuovo che già non ci abbia dato la nostra vicenda letteraria, è vero. Basterà pensare a Carlo Levi e Danilo Dolci che tale mediazione hanno esperito come arma contro le mafie di cui dotare chiunque fosse capace di indignarsi. Ma Saviano ha reso quest’arma, costituita dalla parola, scritta o orale che sia, un mezzo crossmediatico e tecnologico agito in televisione, al cinema, alla radio, al teatro, all’aperto, sul web. E ha cercato di ottenere un effetto unico e potenziato. In La parola contro la camorra il Dvd allegato riproduce due interventi orali che nel libro troviamo nella forma più conforme del testo scritto, con rifiniture appena di misura: a dare il senso di un’intenzione unica, di uno sguardo uniforme e di un orizzonte indiviso. Ma la parola non è solo un’arma, quanto anche un’àncora. Serve a cercare la bellezza nel mondo, la sola che possa essere utile a trovare la salvezza del mondo dal buio dell’attuale inferno. E la bellezza può darla solo la letteratura.
Possiamo dunque concludere. Il Saviano uscito dal nero pece di Gomorra è quello che è passato dal dromenon al legomenon, dall’azione alla descrizione, dal fatto alla parola. Quel che in Gomorra era il risultato di una ricognizione compiuta con gli scarponi chiodati, in Il contrario della morte, La bellezza e l’inferno e La parola contro la camorra è il commento di una ricerca dcumentaria, paralipomeni in guisa di note al testo. Alle scene in esterno si è sostituito lo studio in interno, all’azione la riflessione. Possiamo dirla così: Saviano ha lasciato il terreno dove si è mosso da antropologo ed è salito in cattedra dove ora siede da sociologo. Un percorso obbligato e non artificiale né affettato perché non ci sarebbe stato il secondo Saviano senza il primo né questo avrebbe avuto senso senza quello.