sabato 2 giugno 2012

Battiato: sono un sedentario costretto al nomadismo


Di svolte e di scelte è scandita la vita di Franco Battiato. Di nuove intraprese e di sorprese. L’ultima, quella di portare ologrammi sulla scena, simulacri di realtà, lèmuri del vero. In Fisiognomica di un cantore, appena uscito da Aerostella, Riccardo Storti ricorda per esempio «la scelta coraggiosa nata dalla confluenza di due esistenze creative cresciute in mondi apparentemente diversi».
Il riferimento è alla «strana coppia» formata con Manlio Sgalambro in occasione di L’ombrello e la macchina da cucire, dove «il musicista non si è mai sentito così libero e concentrato sulla sola parte compositiva». Scelte coraggiose sono state anche quelle di fare cinema, teatro e dipingere. Alla sua maniera, si intende: con lo sguardo a Oriente e un occhio visionario. Un’altra scelta, un’autentica svolta, fu quella di lasciare Milano e vivere a 800 metri sull’Etna, a Milo, scelta condivisa con Lucio Dalla, richiamati entrambi dal silenzio e dalla bellezza. Che alle sei del mattino danno la vertigine. 
Lei è molto siciliano ma anche molto straniero, anzi remoto. E forse perché tale è molto siciliano. Quale anagrafe va prevalendo alla fine?
«Questa è una tipica domanda “siciliana”. Non mi è mai capitato di leggere un’intervista a un musicista estone, islandese o inglese in cui il giornalista anteponga l’appartenenza all’arte».
Rimane comunque un siciliano della diaspora o no?
«La meccanica del siciliano che lascia, da giovane, e per necessità, la sua terra, è sempre la stessa: l'andata, il richiamo e il ritorno. Oggi resto, come dissi tempo fa, un sedentario costretto al nomadismo, un siciliano che porta in giro, per una parte di mondo, la sua musica».
Il mondo in cui lei vive orbita attorno a Milo, contraffazione di melos
«Melos significava melodia. Se, come dice qualcuno, non esiste casualità, era destino che venissi ad abitare qui».
Milo è allora il miglior posto per creare come anche per meditare? 
«La meditazione ha bisogno di silenzio, e anche di natura, meglio se con grandi spazi visivi. La nostra poi è esaltata dall’Etna. Il creare invece, in generale, potrebbe non avere luogo, si può fare dovunque. E’ chiaro che sto tralasciando l’aspetto tecnico, che è il suo “luogo” principale».
Mi pare abbia sostenuto in passato che più si sta fermi e più si diventa sciamani. E’ la sua vocazione?
«La mia vocazione è migliorarmi. Mi piacerebbe arrivare preparato al passaggio».
Lei vive qui da oltre vent’anni, o comunque qui ha stabilito la sua residenza. Ed è proprio negli ultimi vent’anni che ha preso una strada nuova, non solo in musica (la lirica, l’incontro con Sgalambro…) ma anche altrove: la pittura e il cinema innanzitutto. E’ Milo che l’ha cambiata?
«Se esistessero posti in grado di cambiare la gente avremmo già raggiunto il Nirvana». 
Cinema e pittura sono comunque un dippiù rispetto alla sua principale attività.
«Il cinema, per me, è una possibilità di allargare il raggio d’azione, ma il linguaggio rimane lo stesso, cambia solo il mezzo. La pittura invece è stata una sfida, che credo di avere vinto, che piaccia o no quello che dipingo. Ma è stata dura. Da sempre penso che, volendolo fortemente, possiamo superare parecchi limiti. Mi sono messo a dipingere per capire la natura dell’handicap che avevo. Ero così negato, inaccettabile».
Di nuovo c’è anche stato l’inconrto con Sgalambro.
«Avvenne nella prima metà degli anni Novanta. La Regione siciliana ci commissionò un'opera su Federico II di Svevia. Manlio scrisse il libretto, io la musica. Da allora abbiamo scritto insieme opere e canzoni. Per esattezza cronologica, la mia prima opera lirica risale al 1986-87. Fu il Regio di Parma a commissionarmela. Seguì poi Gilgamesh, nel 1992, che mi commissionò il teatro dell’Opera di Roma».
Lei sta scrivendo in questi giorni un nuovo disco e, com’è suo stile di vita, si alza prestissimo e prima di comporre medita e fa yoga guardando l’infinito paesaggio che si apre davanti a Milo.
«Il nuovo disco lo sto scrivendo in una stanza piena di libri, dove ho sistemato il mio piccolo, ma avanzato, studio di registrazione e da dove non si vede nessun paesaggio».
Perché vivendo in un centro di gravità mitologica, ed essendo dopotutto figlio della cultura greca, si è lasciato sedurre non dai miti e dagli eroi ma dai mistici sufi e dai dervisci?
«Quel genere di eroi non mi ha mai interessato. Detesto le lotte e le guerre. Presi coscienza della mia precaria condizione umana, all'inizio degli anni Settanta. Iniziai così a studiare i mistici indiani, Gurdjieff, i sufi. Mi sono abbeverato a tutte le fonti che ho riconosciuto elevate. I grandi pensatori e mistici greci, cristiani, ebrei, tibetani, sono stati e sono il mio pane quotidiano».
Non ha neppure una fede politica tant’è che invano nel tempo hanno cercato di collocarla a destra e a sinistra. E se un’ideologia nutre è senz’altro anarchica. E’ un impolitico della specie “grillina”?
«Ho una idiosincrasia per i poteri istituzionalizzati e non, totale. Non mi piace essere comandato, né comandare, ma ho una fede politica inattaccabile e irremovibile: credo nell’uguaglianza degli esseri umani». 
L’ultimo dei suoi film è un omaggio a Gesualdo Bufalino, che lei ha conosciuto bene. Perché non nacque con lui, che le è così analogo, il feeling che poi è nato con Sgalambro? Era un filosofo che voleva come compagno di strada anziché un puro letterato?
«Non è questione di categorie. Scrivere testi per canzoni è un mestiere a parte, e non facile, che non è letteratura né poesia. Sgalambro sa scrivere i testi, non perché è un filosofo, ma perché ha musicalità». 
L’anno scorso a maggio lei portò a Cosenza un’opera, Telesio, rappresentata per mezzo di soli ologrammi. Ha avuto lo stesso effetto sul pubblico dei Sei personaggi in cerca di autore di Pirandello. Lei è davvero capace di tutto. Quale azzardo sta adesso rimuginando?
«Un film su Georg Friedrich Handel, ammesso che riusciremo a trovare i finanziamenti».