mercoledì 28 maggio 2014

Parola di Matteo: non abbandonate la speranza


Il capolavoro di Matteo Renzi non è stato tanto quello di dare un valore al voto elettorale, che per gli italiani di un certo ceto ora sappiamo che corrisponde a 80 euro lorde, cosa che avrebbe potuto fare chiunque, solo a pensarci, ma l’altro di aver mutato la promessa in speranza e prima ancora il sogno in promessa.
In altre parole il premier ha saputo tradurre il credo religioso in politico ed ha applicato nella gestione del governo lo stesso criterio che da oltre duemila anni la chiesa cattolica esercita con i suoi fedeli. Per i quali non conta che Dio esista davvero, ma che noi ci crediamo. Il fatto di credere che Dio esista e che ci possiamo rivolgere a lui in qualsiasi difficoltà della vita (lasciando qui il teorema spinoziano secondo il quale tutto ciò sarebbe solo un fatto di superstizione per cui preghiamo Dio solo quando abbiamo bisogno di aiuto) ci dà una forza senza la quale ci sarebbe molto difficile continuare a fronteggiare le difficoltà. 
Allo stesso modo quando Renzi promette una riforma al mese in realtà non intende prendere alcun impegno serio ma vuole piuttosto adombrare innanzitutto un sogno (ovvero inadempimenti e fallimenti precedenti) che si dice capace di realizzare, sogno che trasforma poi in promessa (ricordate la sua citazione, l’unica che risulti, di Walt Disney e della differenza tra sogno e promessa data dalla fissazione della data?) e che, nella percezione comune, si muta in speranza, la speranza cioè che venga la promessa sia mantenuta. 
In sostanza Renzi annuncia quello che un programma vecchia maniera, cosa che in realtà è, ma lo presenta nella forma di promessa, quindi crea un’attesa che nei fatti diventa speranza. E diventa speranza solo in forza di una condizione generale del Paese che è uguale a quella di un creditore il quale attenda una somma che gli viene sempre rimandata dal debitore. 
Se non avesse bisogno di quei soldi il primo denuncerebbe il secondo per inadempienza. Avendone invece necessità urgente è costretto ad attendere vivendo alla fine dalla speranza di poter ottenere la somma. Chi è insomma con l’acqua alla gola è disposto ad aspettare e intanto si dà forza con la speranza: che non è lo stadio successivo della promessa ma un effetto collaterale di cui si farebbe volentieri a meno se la realtà fosse diversa. Chi ha avuto fatta una promessa non spera che dal momento in cui sia inottemperata.
Se, nel caso di Renzi, gli italiani fossero stati nelle condizioni economiche antecedenti al 2007, il ritardo accumulato da Renzi nel mantenimento degli impegni e nel rispetto del programma annunciato tutt’altro esito avrebbe sortito che un voto pressoché plebiscitario. In quel voto però non c’è alcun consenso, né ideologico né pragmatico. Nemmeno partecipazione. C’è da parte dell’elettorato soltanto una dilazione del debito, con il calcolo di maggiori interessi. E c’è soprattutto una dichiarazione e un'ammissione plateale di bisogno. Quel 40% dice a Renzi: siamo alla canna del gas, tu sei l’unico che anziché programmi ci offre promesse e quindi ci dà speranza e ci dice esplicitamente che questa è da opporre alla rabbia. Non siamo nelle condizioni di pretendere il mantenimento degli impegni presi perché siamo nello stato di dover vivere della speranza che tu sia in grado di essere di parola. 
Renzi ha saputo cogliere e sfruttare come un limone questo sentimento di necessità. E probabilmente sa bene che dopo la speranza viene - anzi torna - il sogno, che è l’altra faccia del bisogno, per cui chi sogna gioca al superenalotto, chi spera continua a dipendere dalla voce suadente di mago Matteo.