domenica 8 giugno 2014

La mafia non fa ridere nemmeno d'estate


C'è una vena grottesca, tra paradosso e ironia, che attraversa la cultura siciliana, in particolare palermitana, una specie di corda pazza che se tirata troppo finisce ogni volta per rompersi. Così avviene anche per La mafia uccide solo d'estate.
Il film del palermitano Pif, saltato dalla sedia d'auto on the road di Mtv (note le sue estemporanee performances come l'indimenticabile minzione davanti alle telecamere) alla seggiola di regista on the world, intende raccontare la mafia scimmiottandola nei modi di Ciprì e Maresco o di Roberta Torre oppure Emma Dante: cioè assumendo, nella letteratura, nel cinema o nel teatro, un punto di vista distorsivo della realtà per cui reso anamorfico quello anche questa si fa straniata ed elusiva. 
L'inafferrabilità del vero, o meglio la sua sofisticazione, costituisce uno dei cardini dell'invenzione creativa siciliana e forse della sua visione delle cose: il "sentimento del contrario" fissato da Pirandello coglie proprio questa contraddizione del reale, che induce al riso se viola il suo principio di realtà. Chi meglio di altri ha condotto agli effetti estremi questo fenomeno tutto siciliano è stato Andrea Camilleri che con la sua teoria del doppio ha proposto, a dosi di sarcasmo e ricercata improbabilità, almeno due piani inclinati del vero, molte volte in contrasto. In La presa di Macallé il fascismo e le sue oltranze sono visti con gli occhi pieni di fate e streghe di un bambino che vuole diventare màs hombre proprio come Alessio Mainardi del Garofano rosso di Vittorini, anch'egli periscopio puntato sul mondo circostante per offrire una verità su di esso che venendo da un bambino non può che essere incontaminata.
Arturo della Mafia uccide solo d'estate è anch'egli l'occhio del mondo puntato sulla mafia di Palermo e vuole dire verità brucianti sotto la specie di parodie al limite del verosimile. Concepito come bildungsroman, il film vuole ricreare una cornice sciasciana di ineluttabilità entro la quale un bambino palermitano non può che crescere all'ombra della mafia, incontrarne inevitabilmente i boss come anche i loro inseguitori, vivere da "testimone" (il titolo della trasmissione di Pif a Mtv) tutte le tappe insanguinate della storia recente della città. E' uno schema artificiale e forzato, ancor più quando il piccolo Arturo fa di Andreotti il suo nume tutelare e il modello di riferimento. 
Per questa via il film scivola nella sotie beffarda intesa a dimostrare una tesi piuttosto che a mostrare una prospettiva. E alla fine fa un gran favore alla mafia, che appare innocua e inabile nella dimensione di compagnia di giro popolata di figurine simpatiche e tutto sommato divertenti: portatori di quel sentimento del contrario che per i mafiosi è un programma storico ancora in via di realizzazione. Questa mafia rassicurante, i cui killer diretti ad uccidere un leader politico come Lima si fermano per strada per beffeggiare un giornalista che più che ridere dovrebbe fare piangere, piace ai boss ai quali non è il senso dell'umorismo che certamente manca ma quello della critica e della denuncia. 
Più questa vena culturale, irridente e irriverente, che può sembrare coraggiosa e prendere le forme della sfida, si ingrossa a Palermo e più la mafia se la ride insieme con lettori e spettatori. I mafiosi da macchietta sono consolatori, costituiscono un male tollerabile e richiedendo una sospensione dell'incredulità rinverdiscono, nella coscienza palermitana, i pupi siciliani che si ammazzano e muoiono per finta, non essendo più la prova della forza in un credo religioso sul quale non è possibile ridere ma la loro pantomima.
La mafia è una malattia troppo seria, che troppi morti ha lasciato a Palermo, perché se ne possa ridere. Viene davvero difficile farlo sulle croci di tutte le sue vittime. Certamente non hanno potuto i parenti che hanno visto Pif fare le smorfie come a Mtv.