lunedì 9 giugno 2014

Quando da morti perdiamo la privacy



Perché nelle tombe dei nostri defunti vogliamo le foto più recenti e non quelle dove hanno un aspetto migliore, quindi più giovane? Perché vogliamo tenerli in vita e ricordarli com'erano nel momento in cui li abbiamo persi.  
E' un uso, questo, diffuso ad ogni latitudine, presente in ogni epoca successiva ai dagherrotipi e praticato senza eccezioni, fatti salvi i cimiteri di guerra. Prima della foto, l'effigie mortuaria era stata rappresentata dal ritratto o dal bassorilievo se non dal mezzobusto e, pur non essendo un costume di massa, l'immagine fu sempre vista funzionale alla "comunione di amorosi sensi".
Oggi i camposanti pullulano di foto. Si tratta di persone perlopiù anziane, il che - ad un colpo d'occhio - stabilisce una linea di continuità tra vita e morte, Aldiqua e Aldilà, restringendo al massimo la fase del passaggio e offrendo uno scenario consolatorio: cosa che non si avrebbe se le foto dei defunti fossero relative a un'altra età che non quella prossima alla morte. In questo caso chi osservasse le foto sulle lapidi ne avrebbe sgomento all'impressione di quanto crudele sia stata la morte a strappare alla vita persone che hanno avuto quell'aspetto così sano e giovanile.
Ma c'è un'altra domanda, a questo punto: perché oggi non c'è tomba senza foto quando in vita tendiamo a ricercare la massima riservatezza e tutto facciamo fuorché ostentarci? Perché la privacy che pretendiamo da vivi la mutiamo in esibizione dopo morti, al punto che teniamo pronta la foto che vorremo esposta? 
Perché non vogliamo essere dimenticati. Anzi, di più, vogliamo essere ricordati. Solo questa speranza riesce a farci esorcizzare la morte e a rendercela non un nulla eterno ma un altrove diverso. La disposizione a immortalare i defunti con le loro foto più recenti (come del resto si fa con ogni contemporaneo: che riconosciamo sui giornali solo se la foto non è remota, tale da renderlo irriconoscibile, cioè un'altra persona) sottende perciò il tentativo di richiamarli in vita, di resuscitarli e riportarli al momento in cui hanno lasciato la terra perché da lì possano riprendere ad esistere. 
Ma l’intento più immediato e pratico è un altro: quello di favorire il riconoscimento del defunto da parte di quanti lo hanno conosciuto perché possano commemorarlo, cioè “ricordarlo assieme”. Mettiamo però il caso che una persona venga sepolta lontano dal paese natale dal quale manca da cinquant’anni e dove può essere ricordato solo com’era da giovane: per garantirne la commemorazione, la foto sulla tomba dev’essere allora quella giovanile? 
La preoccupazione di Telemaco, che va alla ricerca disperata del padre, è che Ulisse possa essere morto “non visto e non conosciuto”, senza cioè speranza che sia commemorato, ovvero nel timore che nessun poeta racconti la sua vicenda e che quindi non lasci di sé ricordo tale che ne assicuri la memoria. Quando Ulisse torna a Itaca nessuno lo riconosce perché la memoria collettiva ha conservato di lui un’altra immagine, che è l’equivalente di una foto presa al momento dell’accettazione della sua morte presunta. 
E' il presente che rende vivi perché la vita parla al presente. Prendiamo Hume. Anziano e malato, dice che se potesse rivivere un periodo della propria vita sceglierebbe quello presente, preferendo rimanere quello che è diventato anziché tornare ad essere quello che è stato. Il presente è un tempo che sentiamo più vicino al futuro che non il passato. Se viviamo oggi e moriamo domani, chi rimane potrà davvero richiamarci in vita facilitando la memoria corrente per ricordarci e commemorarci. 
Non diverso da Ulisse è il destino di Mattia Pascal, che quando rientra a Miragno non viene riconosciuto da nessuno perché nessuno - dice Pirandello - pensa più a lui. Non è dunque più commemorato. Ma al cimitero succede una cosa: va per deporre fiori sulla propria tomba quando chi lo accompagna gli chiede chi è l'uomo sepolto. Perché una tale domanda se basta guardare la foto sulla lapide? Pirandello in verità tace circa la presenza della fotografia. Non sappiamo se c’è o meno e a quale età semmai apparterrebbe. 
Non è una incongruenza o una dimenticanza. Pirandello piuttosto risolve il problema designando la memoria a fungere da fotografia, così da poter concludere che si è commemorati se si è pensati, a prescindere dall’aspetto fissato in una immagine presa in un preciso momento della vita e dai segni dunque di riconoscimento. Si spiega allora la preferenza di Hume per il presente: non ha motivo di dover essere riconosciuto per essere pensato. Non c'è bisogno dunque di una foto da giovani sulla tomba per essere ricordati da chi ci ha dimenticati, perché in realtà veniamo dimenticati solo se non siamo più pensati. 
Si può essere riconosciuti e non per questo essere anche pensati. Ma si può essere pensati senza essere più riconosciuti. Non potendo da morti apprestare alcun mezzo perché qualcuno ci pensi, facciamo di tutto per essere quantomeno riconosciuti. Ed esibiamo i documenti ai posteri per identificarci senza che ci sia richiesto di farlo: a chiunque ci guardi su una lapide. Così morire diventa allora un altro modo di vivere.