L’appello di Papa Francesco a fare figli piuttosto che riempire la casa di cani e gatti sembra arrivare come monito a Livia Burlando e Salvo Montalbano che non si sposano mai né pensano a fare comunque un figlio, semmai ormai possano riuscirci.
Morto Francois, adottato per anni solo a distanza, Livia si è chiusa in una grave sindrome del nido vuoto, che però non è mai stato pieno, e si è distaccata anche dal commissario. Ma poi, nell’ultimo episodio, La piramide di fango (Sellerio), raccoglie una cagnetta randagia, la battezza Selene, e ritrova il piacere della vita: a dimostrare che un animale domestico può davvero sostituire un figlio. E al punto può sostituirlo che Livia lo considera e tratta al pari di una bambina, così come dopotutto va facendo un numero crescente di persone che alla vita naturale preferiscono quella naturale e che nel surrogato trovano ragioni per cambiare la propria visione del mondo. Proprio la logica invalente che Bergoglio ha cercato di respingere invitando a preferire l’incremento demografico e quindi il consolidamento della famiglia dove i figli sono l’elemento costituivo.
Pensando di dotare il commissario e la sua eterna fidanzata (il peggio dopotutto dell’idea di famiglia) di una sensibilità animalista, Camilleri si è trovato, da un lato, a centrare un problema del momento e, da un altro, a girare le spalle al Papa. Per il quale i figli non sono cani né i cani sono figli. Epperò l’atteggiamento tenuto da Livia e Montalbano nei confronti di Francois, praticamente abbandonato come un cane (salvo poi piangere la sua morte a lacrime calde fino a entrare in depressione, senza rendersi conto di esserne in parte responsabili) per poi, quanto alla reazione di lei, vedere in un cane il suo sembiante, depone per un quadro politicamente scorretto.
Tutto questo sa di improbabilità: eccessivo il recupero psicologico di Livia dovuto a un randagio sul quale riversa la sua anima estenuata e ne trova ristoro; ed eccessiva l’accondiscendenza di Montalbano che a sapere la sua fidanzata felice con un cane si rasserena anziché preoccuparsi ancora di più. Anzi, prima di partire per Boccadasse, compra un osso finto e un castoro di peluche e pensa che “a Selene di sicuro sarebbiro piaciuti assà”. Forse un modo tutto camilleriano per definire in maniera più icastica l’incipiente vecchiaia del commissario che avendo tanta testa per il cane della fidanzata rivela segni di una senilità annunciata.
Tolto questo siparietto, l’ultimo romanzo della serie si raccomanda per l’intreccio e per la fabula. Il primo è dettato da una trama intelligente, scandita da rivolgimenti degni del miglior giallo, gravida della giusta suspence, senza cedimenti. La seconda cita gli apparati politico-istituzionali della Regione siciliana, quella che negli anni Sessanta fu definita “l’industria del potere” e che oggi è diventata una holding. Camilleri aveva finora sempre sfiorato il “palazzo” più grande della Sicilia e mai ne aveva collegato uno più piccolo, anche solo municipale, al sistema mafioso.
Qui invece il riferimento è esplicito, dichiarato, inevitabile. Tanto lo è che suona indebita la solita nota finale nella quale l’autore mette le mani avanti per ribadire che s’è inventato tutto. Stavolta no. Quando infatti scrive che “non c’è nessun riferimento voluto a persone realmente viventi o a situazioni già veramente accadute” sembra intendere che il riferimento sia dunque involontario e quindi più realistico e naturale, più aderente allo stato delle cose. E così è. La Regione mafiosa è la categoria nuova del sistema montalbaniano dove la sua presenza è nebulosa, nascosta, inavvertita. Nel romanzo la vediamo in azione nella sua entità astratta, come un Leviatano privo di volto e parola, ma opprimente e mortifero.
La piramide di fango non adombra che questo moloch di malaffare e potere e tanto più Camilleri la rende minacciosa quanto meno la mostra nella sua evidenza. Sotto tale aspetto questo suo romanzo è non solo tra i più lucidi ma anche il più coraggioso.