Due parabole del vangelo di Matteo si prestano a interpretazioni discutibili, soprattutto se rapportate al mondo del lavoro odierno, e sembrano osservare un principio di vera ingiustizia.
I brani sono questi:
I brani sono questi:
Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: "Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò". Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi"? Gli risposero: "Perché nessuno ci ha presi a giornata". Ed egli disse loro: "Andate anche voi nella mia vigna". Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: "Chiama gli operai e da' loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi". Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: "Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo". Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi". (Matteo, 20,1)
Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele", gli disse il suo padrone, "sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele", gli rispose il padrone, "sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti". (Matteo, 25,14)
Nella prima parabola il padrone della vigna commette una grave ingiustizia ricompensando il lavoro non secondo la prestazione resa ma in base a una considerazione equanime che volendo essere frutto della sua bontà sortisce un principio assente in ogni sistema economico per il quale gli ultimi possano essere i primi: una regola che può valere nelle dinamiche sociali ma non in quelle economiche, tantomeno capitalistiche come quelle dell'Occidente. Se davvero un'azienda si comportasse come il padrone della vigna avremmo una situazione di alienazione dal lavoro e di assenteismo che ne determinerebbe presto il tracollo, premiando i fannulloni quanto più penalizzerebbe, e forse demonizzerebbe, gli zelanti.
Nella seconda parabola il padrone che inopinatamente affida sette talenti non a degli amici ma a tre suoi servi secondo la loro capacità, quindi con l'incarico di investirli, accusa di essere malvagio e infingardo quello al quale ha dato un solo talento e che lo ha custodito addirittura nascondendolo. La sua colpa, per cui viene addirittura gettato "fuori nelle tenebre" dove nientemeno "sarà pianto e stridore di denti", è quella di non avere speculato, di non essere andato come gli altri servi dai banchieri per perseguire un interesse sul deposito nelle loro mani, ma di aver fatto la formichina come insegnano oggi i buoni padri di famiglia e di aver provveduto non a spendere il talento avuto ma di averlo messo come in un salvadanaio aspettando di restituirlo a padrone. Oltretutto conosce il padrone come una persona che miete dove non ha seminato, quindi come una persona avida e ingorda, e ne ha paura non sapendo quanto egli si sarebbe atteso, per cui non fa niente. Dovrebbe piuttosto dire al suo padrone: "Prima di partire perché non hai affidato tu stesso i tuoi talenti ai banchieri? Pensavi che dandoli a noi servi potessero fruttare di più? O volevi mettere alla prova la nostra capacità, noi che siamo solo servi uguali agli animali?".
Le due parabole, nell'esegesi cattolica, intendono interpretare la prima la predilezione di Dio verso quanti rimangono indietro e il trattamento paritario che egli usa con tutti gli uomini, la seconda l'utilità delle opere di bene compiute agendo e non oziando. Ma sono fortemente in contrasto proprio nell'azione che postulano: il padrone della vigna si basa su un principio che prescinde da quanto si faccia per meritarsi la sua lode, mentre il padrone in viaggio fonda la sua valutazione premiale sull'iniziativa economica dei suoi servi. Si rovescia così nel suo contrario il bene di essere gli ultimi, perché è ultimo chi viene cacciato fuori e non ha alcuna possibilità di essere premiato.
Se perciò il regno di Dio è davvero simile al padrone della vigna e verrà come il padrone in viaggio che tornerà improvvisamente per chiedere conto di quanto è stato fatto per il suo vantaggio punendo chi non ha commesso alcun male, anzi ha preservato quanto ha avuto, e premiando, togliendo al primo, chi ha speculato con i banchieri con metodi che non possono non essere discutibili e censurabili perché a danno di qualcuno, avremmo un Dio tanto più misericordioso quanto più miserabile. Un Dio che non chiede niente per farsi meritare e che chiede il massimo, un Dio profondamente ingiusto, confuso e volubile che da un lato rende tutti gli uomini uguali e da un altro li distingue secondo la loro capacità, per di più livellando i lavoratori che in teoria dovrebbero guadagnare in base ai meriti individuali e sperequando i servi che in teoria dovrebbero essere tutti dello stesso infimo rango.
Le sacre scritture e quindi anche i vangeli vanno visti non per quanto spiegano ma per quanto dicono. Le parabole sono il più delle volte similitudini in nessuna rispondenza con gli enunciati che intendono dimostrare e devono esser calate nel tempo al quale si riferiscono. La parabola del padrone in viaggio risente fortemente della cultura ebraica e del modo ebraico di intendere i traffici economici, conserva quindi un retaggio veterotestamentario, mentre quella del padrone della vigna integra un sentimento politico, zelota e forse esseno, diciamo nazireo nel senso della politica di ispirazione egualitaria e comunista che muoveva i palestinesi spinti a liberarsi del giogo fortemente sperequativo dei Romani.
Si tratta di due parabole presenti costantemente nella liturgia della messa e richiamate nella lettura dei vangeli. I predicatori si sforzano nel vedere in esse lo spirito di eguaglianza e lo sprone a guadagnarsi il regno dei cieli, in contraddizione peraltro con l'esempio di Gesù che non fa che scegliere apostoli, miracolati, fedeli e popoli di una sola nazione, e con la dottrina di san Paolo che annette la salvezza dell'anima non alle opere ma alla grazia unilaterale di Dio.
Nella seconda parabola il padrone che inopinatamente affida sette talenti non a degli amici ma a tre suoi servi secondo la loro capacità, quindi con l'incarico di investirli, accusa di essere malvagio e infingardo quello al quale ha dato un solo talento e che lo ha custodito addirittura nascondendolo. La sua colpa, per cui viene addirittura gettato "fuori nelle tenebre" dove nientemeno "sarà pianto e stridore di denti", è quella di non avere speculato, di non essere andato come gli altri servi dai banchieri per perseguire un interesse sul deposito nelle loro mani, ma di aver fatto la formichina come insegnano oggi i buoni padri di famiglia e di aver provveduto non a spendere il talento avuto ma di averlo messo come in un salvadanaio aspettando di restituirlo a padrone. Oltretutto conosce il padrone come una persona che miete dove non ha seminato, quindi come una persona avida e ingorda, e ne ha paura non sapendo quanto egli si sarebbe atteso, per cui non fa niente. Dovrebbe piuttosto dire al suo padrone: "Prima di partire perché non hai affidato tu stesso i tuoi talenti ai banchieri? Pensavi che dandoli a noi servi potessero fruttare di più? O volevi mettere alla prova la nostra capacità, noi che siamo solo servi uguali agli animali?".
Le due parabole, nell'esegesi cattolica, intendono interpretare la prima la predilezione di Dio verso quanti rimangono indietro e il trattamento paritario che egli usa con tutti gli uomini, la seconda l'utilità delle opere di bene compiute agendo e non oziando. Ma sono fortemente in contrasto proprio nell'azione che postulano: il padrone della vigna si basa su un principio che prescinde da quanto si faccia per meritarsi la sua lode, mentre il padrone in viaggio fonda la sua valutazione premiale sull'iniziativa economica dei suoi servi. Si rovescia così nel suo contrario il bene di essere gli ultimi, perché è ultimo chi viene cacciato fuori e non ha alcuna possibilità di essere premiato.
Se perciò il regno di Dio è davvero simile al padrone della vigna e verrà come il padrone in viaggio che tornerà improvvisamente per chiedere conto di quanto è stato fatto per il suo vantaggio punendo chi non ha commesso alcun male, anzi ha preservato quanto ha avuto, e premiando, togliendo al primo, chi ha speculato con i banchieri con metodi che non possono non essere discutibili e censurabili perché a danno di qualcuno, avremmo un Dio tanto più misericordioso quanto più miserabile. Un Dio che non chiede niente per farsi meritare e che chiede il massimo, un Dio profondamente ingiusto, confuso e volubile che da un lato rende tutti gli uomini uguali e da un altro li distingue secondo la loro capacità, per di più livellando i lavoratori che in teoria dovrebbero guadagnare in base ai meriti individuali e sperequando i servi che in teoria dovrebbero essere tutti dello stesso infimo rango.
Le sacre scritture e quindi anche i vangeli vanno visti non per quanto spiegano ma per quanto dicono. Le parabole sono il più delle volte similitudini in nessuna rispondenza con gli enunciati che intendono dimostrare e devono esser calate nel tempo al quale si riferiscono. La parabola del padrone in viaggio risente fortemente della cultura ebraica e del modo ebraico di intendere i traffici economici, conserva quindi un retaggio veterotestamentario, mentre quella del padrone della vigna integra un sentimento politico, zelota e forse esseno, diciamo nazireo nel senso della politica di ispirazione egualitaria e comunista che muoveva i palestinesi spinti a liberarsi del giogo fortemente sperequativo dei Romani.
Si tratta di due parabole presenti costantemente nella liturgia della messa e richiamate nella lettura dei vangeli. I predicatori si sforzano nel vedere in esse lo spirito di eguaglianza e lo sprone a guadagnarsi il regno dei cieli, in contraddizione peraltro con l'esempio di Gesù che non fa che scegliere apostoli, miracolati, fedeli e popoli di una sola nazione, e con la dottrina di san Paolo che annette la salvezza dell'anima non alle opere ma alla grazia unilaterale di Dio.