martedì 2 dicembre 2014

Sogno e perciò son desto


Il mistero della vita è nella vita stessa, anzi nel suo mistero più comune e impenetrabile: il sogno. La neurologia non è stata in grado di arrivare a una definizione né di dare risposta a molte domande. 
Domande del tipo "perché sogniamo persone che non conosciamo e sapremmo riconoscerle nella realtà se le incontrassimo?", "perché riusciamo a tenere discorsi usando termini a noi sconosciuti e in uno stile che non ci appartiene?", "i sogni possono formare il carattere così come i fatti reali e l'esperienza?", "perché ci si sveglia?", "perché si fanno sogni e si hanno incubi uguali ad altre persone come essere nudi tra la gente o volare?", "l'attività onirica può costituire una seconda vita individuale?", "perché nel sogno viviamo in prima persona e non ci vediamo come vediamo gli altri?".
Forse va rivisto il mezzo, la psicanalisi, con il quale il fenomeno viene studiato. Così come ad un certo punto gli uomini smisero di spiegare la realtà leggendo Aristotele e chiusero i suoi libri per aprire quelli della natura, così è forse oggi necessario congedare Freud e la sua teoria-madre secondo cui i sogni spiegano il nostro inconscio e appartengono alla sua sfera. Su questa via la ricerca si è irrivolata per mille vie non approdando a nessuna convincente. Non è allora il caso di chiedersi se il segreto del sogno non sia da tutt'altra parte e se il sogno abbia legami non solo con il sonno al quale è inevitabilmente associato ma anche con la veglia?
Sappiamo con certezza, per averne fatto più volte esperienza diretta, che nel sogno abbiamo a volte coscienza di stare sognando e di essere quindi in grado di controllare i nostri comportamenti mutandoci in onironautici, viaggiatori lucidi nei nostri sogni; non solo, ma di essere anche capaci di pensare esprimendo a noi stessi giudizi e valutazioni esattamente come faremmo da svegli: senza quindi che si sia incoscienti e irrazionali. Sappiamo anche che non solo riusciamo a riaddormentarci nel proposito di riprendere il sogno appena interrotto e di riuscirci, ma anche che viviamo nei sogni come se fossimo presenti, cioè immedesimandoci, per cui un motivo di paura ci fa ansimare e sudare fino anche a svegliarci di soprassalto, mentre ciò non ci avviene se la paura colga un'altra figura presente nel sogno e che noi vediamo. Se per esempio sogniamo di essere in macchina con una persona che è alla guida e che a una curva ci spaventiamo, la paura che avvertiamo nel sogno ci fa svegliare mentre se è il solo guidatore ad avere paura alla stessa curva nemmeno non ce ne accorgiamo come non ce ne accorgeremmo nella realtà.
C'è dunque un legame inesplorato e più fitto tra sogno e realtà che non tra sogno e sonno? Più che di stati onirici dovremmo parlare di alterazioni mentali riferendoci a fenomeni come il comunissimo dèjà vu che non è la realizzazione di un sogno o la duplicazione di un fatto che abbiamo già vissuto ma una disfunzione momentanea e impercettibile tra cervello e cervelletto che si rimandano la scena appena memorizzata con un infinitesimo di ritardo sicché ci sembra di viverla di due volte, senonché ciò che ricordiamo di aver visto è proprio quello che abbiamo appena visto. Dunque il sogno potrebbe essere una questione che abbia a che fare con la memoria e le sue funzioni e disfunzioni? 
Un contributo in questa chiave può venirci da un'altra esperienza comune a tutti, la differenza cioè tra sogni che si ricordano e sogni che si dimenticano subito essendo di consistenza diciamo scespiriana. Freud risolveva la distinzione in base alla censura che inconsciamente noi opponiamo a sogni che vogliamo dimenticare già mentre li facciamo, sogni che insomma trovano resistenza in noi stessi. E faceva l'esempio di un incesto. Ma l'esperienza ci dice che invece ricordiamo anche gli incubi, anzi sono quelli che ricordiamo di più. E che come tali mettiamo in "incubatrice", cioè li depositiamo in una parte della nostra memoria dove sono destinati a durare più a lungo, a crescere e a perseguitarci anche per molti anni fino addirittura a costituirsi come dei veri mostri capaci di condizionare la nostra vita per sempre producendo in noi tare psichiche, tabuizzazioni, fobie irrisolvibili.   
Aristotele riconduceva il sogno alla sfera del movimento che genera calore e alla forza di inerzia, seguendo un cerebrale e complicato processo mentale secondo il quale da svegli agiamo e accumuliamo calore che disperdiamo quando poi ci addormentiamo, momento nel quale le azioni compiute durante il giorno continuano a produrre effetti come farebbero i proiettili (non le pallottole ovviamente ma oggetti lanciati nell'aria, una freccia per esempio) che proseguirebbero la loro corsa fino a fermarsi e come fanno i vortici nei fiumi la cui acqua torna quieta solo quando cessano. 
"Il vero sogno" scriveva Aristotele "è un'immagine che proviene dal movimento delle sensazioni quando si dorme". Ma se il movimento è eccessivo, tale da rendere "lo sconvolgimento della veglia" troppo gravido di calore, allora i sogni non possono nascere, perché hanno bisogno di assoluta requie, che solo il sonno può garantire. Questo, secondo Aristotele, spiega perché i bambini non sognano, non stando mai fermi e accumulando troppo calore, né sognano gli avvinazzati, gli atrabiliari, i febbricitanti e chi ha appena mangiato. Oggi scherziamo di queste congetture ma Freud elaborò la sua gigantesca costruzione analitica partendo dal presupposto aristotelico per cui i sogni sono la prosecuzione disordinata dei pensieri e aggiungendo di suo che sono anche desideri, conclusione che ciascuno di noi sa bene che è insussistente e improponibile dal momento che abbiamo sogni di cui faremmo certamente a meno.
Ma è più corretto dire che facciamo sogni o che abbiamo sogni? La differenza è decisiva, perché nel primo caso siamo noi gli artefici, nel secondo sono i sogni che ci giungono da sfere sconosciute - non sappiamo nemmeno se addirittura dal cervello. L'interrogativo ci riporta alla domanda di fondo: i sogni rientrano nell'inconscio o nella coscienza? Nel primo caso si spiega la cosiddetta oniromanzia in base alla quale Freud scrive L'interpretazione dei sogni dando dunque ai sogni una funzione divinatoria. Nel secondo caso dobbiamo considerare i sogni una funzione vitale, cioè reale per cui andrebbe smentita la distinzione di Eraclito tra mondo degli svegli, comune a tutti, e stato onirico da intendersi come dimensione privata. Anche i dormienti sarebbero perciò attivi e presenti nella vita che definiamo vera.
Freud aveva presente la consistenza dei sogni cui attribuiva una forza capace di farli ricordare o meno. Più un sogno è forte, emotivamente parlando, cioè sconvolgente per dirla aristotelicamente, e più tempo rimane impresso nella memoria influendo quindi sullo stato d'animo. Così non sono anche i ricordi? Non ci restano impressi più forti ed emozionanti sono i fatti che abbiamo vissuto? Bufalino diceva, con grande ed esclusiva intuizione dovuta ad un'opera di autoscopia senza paragoni, che i sogni col tempo si convertono in ricordi per cui non sappiamo più se un fatto lo abbiamo vissuto o sognato: semplicemente lo ricordiamo. Se è così quel ricordo entra nella nostra vita non come sogno ma come elemento della nostra memoria. La quale, come dice Umberto Eco e come affermano le neuroscienze, si distingue in autobiografica e semantica. La prima è personale, la seconda comune. In base alla memoria autobiografica ricordiamo cosa abbiamo fatto l'ultimo San Silvestro, mentre in base alla memoria semantica ricordiamo il discorso che per San Silvestro fece il capo dello Stato. 
Così abbiamo superato la preclusione eraclitea per cui non viviamo in un mondo privato quando dormiamo né siamo in un mondo comune quando siamo svegli, ma ricordiamo avvenimenti vissuti e sogni fatti secondo se appartengono alla nostra memoria privata o a quella comune. Questo spiega perché facciamo sogni che scopriamo hanno fatto anche altri, fenomeno che possiamo includere nella memoria semantica, meglio nell'onirinautica semantica, e perché sogniamo scene che appartengono solo al nostro privato, come sono i ricordi personali e incondivisibili. Questo teorema spiega anche perché sogniamo persone che non conosciamo ma che potremmo riconoscere, perché ci troviamo a usare termini che ignoriamo e perché anche i sogni come l'esperienza può incidere, anche se in misura minore, sul nostro carattere. E' per questo che si imputa a una grave disfunzione della personalità, pari a uno sdoppiamento, il rarissimo caso in cui sognando vediamo noi come vediamo gli altri. Nel sogno come nella realtà noi rimaniamo noi stessi e viviamo una vita parallela e complementare dove può succederci di tutto, esattamente come da svegli. Sognando viviamo una vita suppletiva. Che per esperienza comune troviamo più gradevole, cioè facciamo più sogni belli, in presenza di una vita reale fatta invece di eventi negativi: come se i sogni costituissero una compensazione o un risarcimento. Quando però non sono invece un prezzo, se abbiamo una vita "vera" piacevole e piena di eventi positivi, caso nel quale facciamo sogni che ci turbano e non ci piacciono.