domenica 30 novembre 2014

Lo zibibbo ha l'oro in ballo


Articolo uscito il 28 novembre 2014 su Repubblica di Palermo

L’Unesco ha iscritto la “vite ad alberello” di Pantelleria nel patrimonio mondiale come bene immateriale premiando così una “agricoltura eroica” che di eroico non ha, come altrove, il solo sudore ma anche lo spirito tutto pantesco di sfruttare al massimo la natura, giocando con le sue possibilità più estreme.
Il celebre passito di Pantelleria è nato infatti come per serendipity, risultato casuale di un deficit endemico, la difficoltà cioè a commercializzare il moscato, che è il tradizionale vino da tavola. In sostanza, non volendo, l’Unesco ha premiato un ancestrale svantaggio economico e sociale. Che è stato trasformato in un formidabile exploit e in un brand che sfida i mercati. 
E’ successo che, in tempi ormai remoti, a Pantelleria si è scoperto che l’invenduto, lasciato ad appassire e ritrattato con il mosto di scarto, poteva sortire due vini in uno, nuovo, originale e apprezzato perché non solo più buono ma anche più bello. Così il moscato è diventato oggi, col marchio Unesco, un elemento del passito, partecipando alla sua creazione. Ed è infatti il passito ad essere celebrato anche in manifestazioni nazionali come Passitaly che in estate ha scelto proprio Pantelleria come capitale.
Donato Lanati, un enologo che nell’isola, tra la quarantina di viticoltori convertiti entusiasticamente al passito, segue pure l’attrice francese Carole Bouquet divenuta una raffinata produttrice di vino (e che, pur essendo piemontese, preferisce a tavola come aperitivo un Sangue d’oro della cantina Bouquet a un Barolo delle sue Langhe), dice che a Pantelleria si è avuta “la splendida sintesi di un antico metodo con un successo moderno” e che il gusto invalente, soggetto a mutare ogni venti anni, ha inteso premiare nello zibibbo pantesco anche il suo aspetto, perché sembra riflettere il colore del sole facendo la differenza con i consueti rossi e gli ambrati di origine continentale. 
Ma Gianni Puglisi, presidente della Commissione nazionale Unesco, avverte che “non è stato premiato lo zibibbo, cioè il prodotto, quanto la tecnicalità della viticoltura dell’isola e quindi la qualità della lavorazione artigianale”. Precisa Puglisi che “il riconoscimento è andato a una tradizione antica e alla sua valorizzazione, in sostanza a uno stile di vita rimasto inalterato nei secoli, perché il cuore del processo che ha meritato il plauso dell’Unesco non è il prodotto in sé, ma la sua coltivazione, in altre parole la condizione identitaria che lega l’uva zibibbo ai coltivatori di Pantelleria”.
Ma se le cose stanno così, si tratta adesso di avviare un altro tipo di commercializzazione, quella immateriale del marchio Unesco. “Occorrerà ancora un anno” dice Lanati “perché siano piantati i cartelli e lo sfruttamento del riconoscimento Unesco divenga operativo, ma intanto bisogna pensare a fare tirocinio”: campo sul quale Pantelleria sconta però proprio il suo antico male della marginalità, divenuto drammatico, trovandosi peraltro a competere a distanza con un altro sito Unesco, i “Paesaggi vitivinicoli delle Langhe” che hanno avuto l’scrizione appena qualche mese fa e la cui industria è ben più attrezzata e avanzata. Per questo il sindaco di Pantelleria, Salvatore Gabriele, esprime soddisfazione sì ma anche preoccupazione, perché il rischio adesso è di rimanere con il marchio Unesco nelle mani, come fosse un diploma al muro.
La soddisfazione è certamente di tutti i siciliani, anche se Puglisi sottolinea di aver agito nel quadro di una strategia nazionale promossa dal ministero delle Politiche agricole. Tuttavia il fatto che la Sicilia sia la sola regione a vantare due beni immateriali Unesco riempie di orgoglio anche lui. Ma se il teatro dell’opera dei pupi, iscritto sei anni fa nel patrimonio da tutelare, è un polo di attrazione prevalentemente turistico, la viticoltura ad alberello di Pantelleria è una forza che può sprigionare ricchezza. In una parola si tratta di un’occasione offerta alla Sicilia. Una nuova occasione, dal momento che recentemente è stata mancata quella del riconoscimento di una città siciliana tra Palermo e Siracusa come capitale della cultura europea. Ma perché la Sicilia deve aspettarsi che siano gli altri, in questo caso l’Unesco, a fare qualcosa per essa?
Gianni Puglisi non accetta che la questione sia posta in questi termini: “Il premio dato a Pantelleria non è una elargizione venuta da fuori, perché ci sono stati anche molti siciliani ad aver lavorato per il suo ottenimento: questo a riprova del fatto che i siciliani possono essere arbitri del loro destino quando però dispongano di un governo che sappia coniugare progettualità e fattibilità, prendendo soprattutto coscienza che il futuro della Sicilia si decide oggi ed è nelle mani di chi oggi la sta gestendo”.
Si parla dunque di politica sostenibile. Che nel caso dello zibibbo pantesco ha avuto pieno successo, giacché sin dal 2010 la vite ad alberello figurava nella “tentative list” per poi passare nel 2013 a essere proposta all’Unesco e infine al voto dei suoi 161 membri, che mercoledì si sono espressi all’unanimità. Una politica premiale. Il prossimo anno sarà infatti ancora la Sicilia a concorrere al riconoscimento Unesco. La designazione è ufficiale e riguarda la Palermo arabo-normanna e bizantina. Nel 2015 la Sicilia potrebbe dunque vantare ben nove siti compresi nel patrimonio protetto, a una sola distanza dalla Lombardia che ne ha dieci e a tre dalla Toscana e dalla Campania. Un risultato notevole che darebbe ragione a Puglisi quando dice che “i siciliani, se ben guidati, sono i migliori creativi del mondo”.
La sostenibilità può perciò essere anche siciliana. Sicché, prefigurando forse una prospettiva di tal genere, il ministro Maurizio Martina, visitando a settembre Passitaly, ha potuto dire tra i vitigni di zibibbo che “qui c’è un pezzo di futuro dell’esperienza agricola italiana”. Un futuro, almeno quello prossimo, che vedrà intanto Pantelleria in prima fila per l’inaugurazione del Cluster biomediterraneo di Expo 2015. C’è chi vede in questo un altro riconoscimento all’ingegno e alla laboriosità di una agricoltura eroica che potrebbe fungere da esempio agli altri siti siciliani Unesco (le Eolie, il Sudest ibleo-siracusano, i sedici Comuni compresi nel toponimo dell’Etna, i teatri dei pupi siciliani, la Villa del Casale, Siracusa e la Valle di Agrigento) che ben poco hanno fatto per fare valere il loro privilegio e ancor meno per rendersi eroici, cioè artefici e beneficiari della loro fatica e del loro genio.