sabato 29 novembre 2014

C'è qualcuno che vuole rifare la Destra?


E' nell'atto costitutivo di questa repubblica sospesa tra seconda e terza che i leader siano destinati, come cesari del basso impero, a cadere al pari di erme tranciate o a essere contestati in piazza. Renzi, Berlusconi e Grillo vivono il loro momento peggiore. Tutti insieme.
Renzi fatica enormemente a fare passare la sua rottamazione e l'idea di nuova Italia e di partito della nazione dal vago sapore fascista; Berlusconi ha visto rompersi attorno il cerchio magico come un palazzo preso d'assalto e Grillo gira attorno al suo castello di sabbia chiedendosi se distruggerlo o abbandonarlo alle onde. 
Come succede in democrazia, dove i vuoti si colmano sempre, e come succede negli stati vacillanti dove centurioni e camerleghi si sentono autorizzati ad ambiare alla corona, all'orizzonte è apparso un altro ducetto, il più impronosticato e improbabile di tutti: Matteo Salvini, l'ultimo pifferaio per la rivoluzione, l'ultimo giacobino in saio di monaco eretico. Perché sta succedendo tutto questo al centro di un'Europa che trema pur essa ma senza minacciare rivolgimenti che non siano controllati? Perché i leader che dovevano guidare il cambiamento del Paese stentano a guidare le loro truppe? E perché un partito fino a ieri sconvolto dagli scandali come la Lega e ridotto a un circolo di simpatizzanti facinorosi può pretendere adesso di candidarsi alla guida del Paese fino a gettare la sua egida su quel Meridione che avrebbe voluto cancellare dalla carta geografica? In uno scenario più ampio, occorre anche chiedersi perché mai si avverte oggi uno stato di instabilità politica di gran lunga più grave di quello minato dal terrorismo che quello stato aveva come primo obiettivo?
Le risposte non possono che partire da una constatazione, da vedere come un sintomo patologico e non come un fenomeno fisiologico quale lo ritiene Renzi dal basso della sua esperienza: il calo vertiginoso dell'elettorato passivo. Che non è segnale di disaffezione alla politica, bensì manifestazione di volontà politica, partecipazione di massa: che si sarebbe espressa nel voto a un partito se questo partito solamente ci fosse stato. Chi non va a votare non intende girare le spalle alla urna ma torna sui suoi passi perché sul bancone non trova quanto cerca. Di qui la genialata di Salvini che in fretta e furia, una volta accortosi che il marchio Grillo non crea più le code, ha cambiato etichetta al suo prodotto e si è messo davanti a Grillo per sostituirsi a lui nel gradimento di un pubblico che è rimasto lo stesso e che è messo lì in attesa di un altro piazzista cui credere un'altra volta ancora.
Prima che a sinistra il problema è proprio a destra, dove la sciagurata e suicida politica di Gianfranco Fini ha messo in moto una catena di effetti che ha sconvolto lo scacchiere conservatore privandolo di un equilibrio che proprio la Destra era riuscita a mantenere pressoché inalterato. L'emorragia dell'elettorato conservatore che Fini pensava di fare confluire in un polo di destra più ampio e meno isolato si è rivelata mortale quando si è capito che la Destra, differentemente dalla Sinistra che aveva lungamente amoreggiato con il Centro trovando come stare d'accordo anche al governo, mal tollerava commistioni con quella vasta langa democristiana prima e berlusconiana dopo che per decenni aveva combattuto proclamando la propria antiteticità. 
Quel che, come professione di coerenza e fede, ha poi fatto Grillo, contrario a fondersi e confondersi con parti estranee al proprio statuto non riuscì ad Alleanza nazionale troppo sbrigativa nell'unire le proprie bandiere a quelle di Forza Italia, della Lega e del Ccd: senza rendersi conto che era essa stessa, una Destra di lotta e di governo uguale e contraria alla Sinistra e al Pci, indispensabile al futuro della democrazia, essendo la sola forza della coalizione conservatrice ad avere una sua identità storica, un suo elettorato distinto e amalgamato, e non Forza Italia, Lega o rifacimenti in salsa povera della Dc, partiti senza passato e contenitori provvisori di sbandati, scontenti, confusi e riciclati. 
I mali dell'Italia di oggi vengono in gran parte dalla scomparsa di un ago fondamentale della bilancia quale è la Destra in Italia e portano il nome di Fini, troppo esposto alle blandizie di quanti lo irretivano facendogli balenare la prospettiva del Quirinale al solo scopo di eliminare il suo partito svuotandolo delle sue energie esclusive.
La differenza con la Sinistra, anch'essa necessaria in un sistema democratico che non intenda l'arco costituzionale come gioco ad excludendum, è in ciò, che la Sinistra non è morta mentre la Destra sì. La Sinistra, teatro di violenti e belluini scontri interni, non si è mossa che di qualche spanna dal terreno dove l'ha lasciata Berlinguer, il primo che avviò l'opera di sdoganamento dal Patto di Varsavia portando il Pci ad essere oggi un partito socialdemocratico ma pur sempre di sinistra, e se ha cambiato maglia ha conservato il suo retaggio, la sua struttura, un'anima capace di contraddirsi ma assolutamente in grado di riconoscersi. Renzi è nella linea di continuità di un partito che può ancora dirsi progressista, mentre a Destra non è rimasto nient'altro che macerie: Forza Italia reitera stancamente la sua vocazione a rifare la Dc, il Ccd o Udc si è perso tra sigle e bivi, l'Ncd è un oggetto misterioso che si dice di destra ma governa con la Sinistra, la Destra di Storace una banda di opportunisti, Fratelli d'Italia un'orchestra stonata, la Lega un'orda di corsari che attaccano qualunque muro oltre il quale ci sia un bottino. 
Resta Cinquestelle, il solo fatto nuovo degli ultimi anni. Nella sua vicenda interna si riflette come in un cosmorama la situazione nazionale di confusione, incertezza, improvvisazione e pressapochismo. Intenta a ritagliarsi uno spazio autonomo di manovra che sia distante da tutti, non ha compreso quanto sta intuendo la Lega: che lo spazio da riempire è quella terra promessa abbandonata dagli elettori conservatori perché cacciati ed espropriati ed oggi addetti a una diaspora che si parcellizza sempre più mentre vorrebbe solo tornare a casa. E' quella "maggioranza silenziosa" che non si è mai dispersa e che oggi non vota perché non ha chi votare. 
Attestato su un credo esclusivamente pragmatico che rifugge ogni regresso visto come ideologico, Cinquestelle perde voti e consensi perché non è in grado di offrire non un programma di cose da fare o buoni esempi di amministrazione ma idee, valori da condividere, ideali nei quali riconoscersi. Cinquestelle è così imputabile dell'errore più grave che potesse essere commesso: ha consolidato il processo di annullamento, partito con l'inizio della seconda repubblica, dell'unico modello nel quale gli italiani intendono ancora oggi credere e cioè il partito. Aver trasformato il partito da officina di idee, tavolo di confronto, laboratorio di pensiero e azione, pensatoio e covo, a comitato elettorale, fabbrica di creazione del consenso a beneficio non del partito ma di un candidato, operazione massimamente sostenuta da Cinquestelle con il ricorso anche a plateali e bugiardi esercizi di democrazia attraverso il web, non ha significato solo il calo di iscritti in tutti i partiti e il crollo del voto ma anche la sottrazione agli elettori, ai simpatizzanti, ai militanti di un motivo per cui partecipare alla vita politica non per lucrare un vantaggio personale ma per coltivare un terreno comune dove progettare un futuro in vista di uno stato di benessere e di felicità.
Di qui l'attuale caduta degli dèi e l'insorgenza di nuovi uguali ai primi. La via d'uscita è nella ricostituzione della Destra e nella ricostruzione dei partiti come sedi dove custodire bandiere, fotocopie, manifesti, cimeli e documenti. Dove ritrovarsi e sentirsi uniti e diversi. Se la politica non torna a essere questo non sarà che un campionato a squadre, dove si possono cambiare i giocatori e dove l'obiettivo non è la speranza in un futuro a propria misura ma l'ambizione in un successo quanto più vantaggioso e immediato.