Si deve convenire che il gusto estetico cambia col tempo più che con l’ambiente in cui invale. Nell’Ottocento e fino al fascismo la donna formosa ha rappresentato - meglio ancora: ha incarnato - l’ideale di bellezza femminile.
Ma oggi l’entusiasmo espresso su tutti gli altri da Guy de Maupassant per la Venere Landolina, pezzo forte del Museo Paolo Orsi di Siracusa, ci appare piuttosto eccessivo. Ancorché priva di testa e quindi difficile da ricondurre a un canone di bellezza che potesse fare a meno dei lineamenti del viso, la Venere siracusana indusse lo scrittore francese a sperticarsi in un crescendo di lusinghe e lodi davvero senza ritegno.
Maupassant e con lui altri viaggiatori e visitatori, da Augusto de Forbin ad Achille Segard, si fecero sedurre dalla sola opulenza del corpo e questa esaltarono, nonostante i polsi e le caviglie grosse, le gambe tozze e abbondanti, il girovita non certo di vespa, il collo alquanto taurino e il bacino decisamente pronunciato. Nondimeno l’autore naturalista non si trattenne dallo sbavare su tanta carne: “È robusta, col petto colmo, l’anca possente e la gamba un po’ forte, è una Venere carnale che si immagina coricata quando la si vede in piedi”.
Oggi una donna giunonica di tale aspetto è considerata bisognosa di una dieta severa e di una buona palestra, ma in passato turbò molto l’immaginario maschile. Ad eccitare la fantasia contribuiva l’atteggiamento pudico della fanciulla scolpita, colta nel momento in cui, uscendo da una probabile vasca d’acqua, si copre con una mano (andata persa) il seno e con l’altra trattiene all’altezza del basso ventre un drappo che viene scoperto da un vento malizioso.
La Venere aretusea è una variante dei modelli compresi nel tipo cosiddetto “pudico” ed è anche detta callipigia, ovvero “dalle belle natiche”, pur essendo ben meno riuscita, proprio nel fondo schiena, di quella che si trova a Napoli. Si distingue e caratterizza per essere stata concepita dall’anonimo scultore come autenticamente siracusana. La prova è data dalla presenza, circonfusa nelle volute del panno in basso a destra, di un delfino che è il simbolo di Siracusa ricorrente nelle monete di conio locale in epoca greca. Di qui la domanda se l’autore fosse siracusano e se si sia valso di una modella. Se fu così, bisognerebbe allora ipotizzare che il sembiante femminile in voga in età greco-romana fosse lo stesso che nell’Ottocento avrebbe poi suscitato un coro internazionale di ammirazione. Ma mancano gli studi.
Ma oggi l’entusiasmo espresso su tutti gli altri da Guy de Maupassant per la Venere Landolina, pezzo forte del Museo Paolo Orsi di Siracusa, ci appare piuttosto eccessivo. Ancorché priva di testa e quindi difficile da ricondurre a un canone di bellezza che potesse fare a meno dei lineamenti del viso, la Venere siracusana indusse lo scrittore francese a sperticarsi in un crescendo di lusinghe e lodi davvero senza ritegno.
Maupassant e con lui altri viaggiatori e visitatori, da Augusto de Forbin ad Achille Segard, si fecero sedurre dalla sola opulenza del corpo e questa esaltarono, nonostante i polsi e le caviglie grosse, le gambe tozze e abbondanti, il girovita non certo di vespa, il collo alquanto taurino e il bacino decisamente pronunciato. Nondimeno l’autore naturalista non si trattenne dallo sbavare su tanta carne: “È robusta, col petto colmo, l’anca possente e la gamba un po’ forte, è una Venere carnale che si immagina coricata quando la si vede in piedi”.
Oggi una donna giunonica di tale aspetto è considerata bisognosa di una dieta severa e di una buona palestra, ma in passato turbò molto l’immaginario maschile. Ad eccitare la fantasia contribuiva l’atteggiamento pudico della fanciulla scolpita, colta nel momento in cui, uscendo da una probabile vasca d’acqua, si copre con una mano (andata persa) il seno e con l’altra trattiene all’altezza del basso ventre un drappo che viene scoperto da un vento malizioso.
La Venere aretusea è una variante dei modelli compresi nel tipo cosiddetto “pudico” ed è anche detta callipigia, ovvero “dalle belle natiche”, pur essendo ben meno riuscita, proprio nel fondo schiena, di quella che si trova a Napoli. Si distingue e caratterizza per essere stata concepita dall’anonimo scultore come autenticamente siracusana. La prova è data dalla presenza, circonfusa nelle volute del panno in basso a destra, di un delfino che è il simbolo di Siracusa ricorrente nelle monete di conio locale in epoca greca. Di qui la domanda se l’autore fosse siracusano e se si sia valso di una modella. Se fu così, bisognerebbe allora ipotizzare che il sembiante femminile in voga in età greco-romana fosse lo stesso che nell’Ottocento avrebbe poi suscitato un coro internazionale di ammirazione. Ma mancano gli studi.