martedì 11 luglio 2017

Come il "tremuoto ranni" riunì Chiesa e Stato



Il “tremuoto ranni” che nel 1693 distrusse il Val di Noto costituisce, dopo 324 anni, ancora oggetto di studi sulla cosiddetta “società barocca” intesa come cultura fondata sulla credenza e vicina a cedere il campo a quella illuminista ispirata a un sentimento ideologico.
Le due civiltà si diedero il cambio proprio nella Sicilia orientale in occasione del terremoto dando luogo al tramonto di una e all’insorgenza dell’altra. La prima, quella barocca, era rivolta al passato e visse il grande sisma non come una catastrofe naturale ma al pari di una punizione divina, convinta che altro non fosse se non la fine del mondo. Dopo la scossa iniziale di venerdì 9 gennaio (capitata pressapoco alla stessa ora notturna di quelle recenti dell’Aquila e Amatrice), aspettando che arrivasse la “replica”, la gente riempì le chiese chiedendo di ricevere l’assoluzione dei peccati, perché prossima alla morte. Il vescovo di Siracusa scrisse in una memoria che i penitenti venivano assolti al primo peccato confessato e senza aspersione di acqua, tanto erano numerosi e così breve era il tempo nell’attesa certa di una nuova scossa che, come la tradizione indicava, avrebbe dovuto essere più leggera. A ricondurre all’ira divina l’“apoteosi dell’annichilimento” che arrivò la sera dell’11 fu anche il fatto che la “replica” ebbe invece effetti ben più gravi: durò molti minuti, fu di forte intensità e trasfigurò la realtà in una visione che davvero poteva assomigliare a un’apocalissi sconosciuta e biblica.
Mai è stato calcolato con precisione il numero dei morti, che furono numerosissimi perché la maggior parte delle vittime vennero colte di sorpresa alle 20 di sera ammassate nelle chiese, il cui crollo destò in esse più terrore e maggiore timore di Dio perché credevano che trovare riparo tra gli altari sarebbe stato meglio che cercarlo in campagna. Tra le macerie e nell’assenza di ogni risorsa molti morirono di fame e anche di sete. Le autorità lasciarono che le folle saccheggiassero i depositi rimasti in piedi e rovistassero tra le rovine dei palazzi nobiliari. La gente che poté scappò dai paesi macchiandosi di un ulteriore peccato, quello di aver lasciato i morti insepolti e abbandonato i feriti. Ci furono rivolte popolari soffocate nel sangue come a Vizzini e si ebbero focolai di peste. Al ritorno i cadaveri furono bruciati e cremati all’ammasso. La fede cristiana che al culto dei morti annetteva un’importanza sacrale fu letteralmente sfidata da moltitudini che credettero che anche quel disumano comportamento collettivo, così estraneo alla coscienza siciliana, fosse effetto della fine del mondo che si compiva.
Ma poi, quando sembrava a tutti che null’altro c’era da aspettare se non la morte, si ebbe il vero miracolo: la rinascenza. Il Val di Noto risorto dalle sue ceneri e che oggi vediamo consacrato come patrimonio dell’umanità per la bellezza delle sue chiese, dei suoi palazzi e delle sue città ricostruite è il frutto di un progetto in debito con la ragione, la forza delle idee, a fiducia nell’uomo, in una parola l’Illuminismo. La Sicilia tardo-medievale retrocedeva davanti all’incalzare di quella moderna. Che non divenne perciò laica ma si pervase incredibilmente di un nuovo credo che alla Chiesa accomunava lo Stato.
Fu grazie proprio a questa congiunzione che nacquero le cattedrali e i palazzi di stile barocco e di sostanza illuminista che, per i tempi di realizzazione calcolati in decenni, sarebbero stati impensabili se i due grandi poteri in essere, Chiesa e Stato, non si fossero legati in una nuova prospettiva comune.
Si mossero insieme ma non con lo stesso passo e nella stessa direzione. Mentre lo Stato e cioè Madrid, si preoccupava (oltre che del mantenimento dell’ordine pubblico, del pericolo che nel disordine generale il regno fosse aggredito da potenze straniere, di impedire che le città demaniali ma anche feudali risorgessero vicino al mare e fossero esposte quindi al rischio di diventare poli di contrabbando) soprattutto della ricostruzione, badando a tenere il conto dei morti al fine di decidere se sospendere o meno la riscossione delle “tande”, cioè delle tasse, e ricevendo così rapporti a volte gonfiati e altre sottostimati secondo la vicinanza delle autorità siciliane alla corona, la Chiesa si occupò per prima cosa di mettere in salvo il proprio ordine.
La notizia che si propagò nel mondo cristiano suscitando ovunque indicibile angoscia di suore di clausura vaganti scalze e semisvestite per le strade indusse le autorità ecclesiali a provvedere innanzitutto a dare ricovero a “moniali” e frati lasciando che le popolazioni più povere provvedessero da sole e in promiscuità a trovare ripari di fortuna in pagliari e grotte. La scelta fu dettata anche dalla ragione di soccorrere spiritualmente le popolazioni colpite che erano in cerca di protezione divina, di perdono celeste e di speranza in un futuro certo.
Al duca di Camastra - rimasto il solo vicario generale dopo il disimpegno per motivi di salute del vescovo di Siracusa e del principe di Aragona, gli altri due vicari di nomina viceregia - che vagheggiava una ricostruzione sul modello della “città del sole” teorizzata da Tommaso Campanella (e Grammichele in qualche modo ne fu un’applicazione con la sua pianta a raggiera), la Chiesa si impose concependo la ricostruzione delle nuove città partendo sì dalla piazza, che però non fosse ipostasi temporale del sole metafora dello Stato, ma fulcro del potere spirituale dove la chiesa madre si ergesse al centro di un sistema dal quale diramassero gli altri poteri, quello politico-istituzionale e quello nobiliare-censuale.
L’ha spuntata la Chiesa, a vedere le città sorte dal terremoto: ma con un compromesso in base al quale oggi le matrici sorgono perlopiù nelle stesse piazze centrali dove sono stati edificati anche i palazzi comunali e quelli aristocratici che hanno via via spodestato conventi e monasteri nati a ridosso della chiesa madre e insieme con essa. Il grande terremoto ha trasfuso la storia nella geografia e ha disegnato la mappa dei poteri approfittando della circostanza di dovere rifare l’assetto urbanistico.
Come se fosse da decidere la disposizione dei posti a teatro, la ricostruzione ha assegnato (rimanendo alla fine ancorata a una cultura spagnola di apparenze e modi e faticando ad aderire all’invalente etica francese che guarda ai Lumi) ai poteri i loro spazi, così teatralizzando le nuove città col servirsi di un gusto palinodico, quello barocco, che da un lato celebra e da un altro sbeffeggia gli stessi poteri e con essi la vita.
È dunque l’“eroe barocco” a nascere dalle macerie e prevalere su quello illuministico-romantico che si propone come nuovo demiurgo ordinatore teso a rifare il mondo su basi ideologiche. L’intento barocco è invece di ricomporre il creato, lasciando al centro la Chiesa, ma lo fa non ignorando che anche le chiese sono state distrutte, che Dio ha voluto lo sterminio di umili fedeli salvando più ricchi che poveri, che un nuovo vento spira da Oltrestretto carico di idee nuove e ragioni che offrono inaudite vie di salvezza, meritevoli di essere prese in considerazione ma accolte intanto con l’irriverenza di chi, avendo troppo sofferto, si prende gioco di ogni fatto nuovo.