sabato 8 luglio 2017

Quando il Pci sfidò i lavoratori ragusani

Palmiro Togliatti

Rigurgito fascista o prorompimento comunista? La sommossa tutta siciliana dei “Nonsiparte” del dicembre 1944, nella quale la provincia di Ragusa fa da principale teatro, ha lasciato interrogativi aperti tra chi vi vede uno spirito filofascista e altri che parlano di mobilitazione di sinistra.
Pur essendo trascorsi 73 anni, l’indagine storica non si è ancora liberata del disagio ingenerato dai fatti e riconducibile alla contraddittoria interpretazione data alla “svolta di Salerno”. Appare ormai chiaro che la sommossa assume in Sicilia il significato di una sconfessione della linea voluta da Togliatti circa la caduta della pregiudiziale monarchica in vista della compartecipazione del Pci al governo di unità nazionale.
La linea intrapresa da Togliatti, contrario a un esercito di volontari e deciso a rischierare le forze militari monarchiche, non può concedere deroghe alla questione siciliana e al rifiuto dei giovani di ripartire in guerra in nome di una speciale condizione di sofferenza dopo i traumi della guerra mondiale. Per il Pci si tratta di subordinare la questione siciliana a quella nazionale in una strategia di precedenze che ha appena trovato applicazione circa la questione istituzionale, per la quale il Pci è pronto a scendere a compromesso con i partiti reazionari per il superamento dell’ipoteca nazifascista.
Fatta questa scelta, il Pci si trova ad affrontare il fronte dei renitenti siciliani che sfocia in una sommossa alla quale Comiso dà il carattere di una vera e propria rivoluzione dichiarando guerra allo Stato con l’affrontare carabinieri prima ed esercito dopo e finendo per costituire una repubblica autonoma, effimera ma infiammata. A Ragusa una pasionaria, Maria Occhipinti, si stende a terra per impedire la partenza di un camion carico di giovani destinati alla leva. Nel suo libro autobiografico, Una donna di Ragusa, la Occhipinti preferisce liquidare la questione in poche righe nelle quali non riesce a mascherare l’imbarazzo che voglie lei come tutti i compagni comunisti: “Il partito aveva preso posizione. Li Causi era venuto per dare l’ordine di partire. Non partire era come tradire i fratelli del Nord che lottavano per liberare l’Italia dal fascismo. Ma molti comunisti non potevano ammettere che si andasse ancora a combattere in nome della monarchia. Ci si rifiutava di combattere per il re e si era contro ogni genere di guerra che non fosse una rivoluzione”.
La “rivoluzione”, che si traduce in un’inosservanza della chiamata del re (ciò che in teoria dovrebbe guadagnare il sostegno dei vertici comunisti) non solo viene repressa nel sangue come a Comiso ma è bollata quale rigurgito fascista. Li Causi, incaricato da Togliatti di girare la Sicilia per dissuadere i renitenti, è quanto mai categorico: “I fatti di Ragusa e Catania ci dimostrano che le forze reazionarie si sono coalizzate contro di noi per impedire la chiamata alle armi e sabotare così lo sforzo bellico contro i fascisti e i tedeschi”.
Per il Pci non partire significa minare la Resistenza e appoggiare la Rsi e quindi Hitler. Sicché un volantino fascista ha agio di esortare i richiamati: “È nostro sacrosanto dovere collaborare con i fratelli della Repubblica sociale. Non vi presentate!”. Diventa così consequenziale che la Rsi conferisca a Ragusa la medaglia d’oro e a Comiso quella d’argento, sancedndo la lacerazione che segna la sommossa. Una sommossa che in verità non è filofascista né filocomunista né filoindipendentista, ma che si rivela il tentativo non nuovo negli stessi anni di imporre un mob law attraverso una rivolta popolare che assume i caratteri spiccati di una jacquerie.
Nella sommossa spontanea confluiscono infatti le più diverse forme di scompenso sociale che hanno avuto motivo di covare nei lunghi mesi di stenti e privazioni. E non può non fare specie che proprio in provincia di Ragusa i decreti Gullo-Segni sulle terre incolte e soprattutto quelli sull’ammasso abbiano avuto successo maggiore che altrove perché giunti a lenire i bisogni di quella stessa popolazione che si arma contro l’esercito nel quale è chiamato a militare. A ben vedere ciò che la coscienza popolare percepisce è il senso di pericolo connaturato in ogni fatto nuovo che comporti ulteriori intraprese dello Stato sabaudo. Del resto lo Stato uscito dall’8 settembre è nemico a tutti: ai separatisti, ai fascisti e agli stessi comunisti siciliani che di fatto mostrano di rifiutare di riconoscersi nella svolta di Salerno.
Rivolta spontanea quindi, ancor di più perché agit prop nei vari Comuni del Ragusano sono indistintamente fascisti e comunisti eletti a tribuni del popolo in forza di un diffuso sentimento di protesta che l’iniziativa di massa ha rivolto contro ogni provvedimento che mini sia le condizioni economiche che la libertà perdonale.
I Nonsiparte una volta debellati non lasciano traccia negli sviluppi della politica di unità nazionale né in quella separatista. Come tutte le jacquerie il movimento si presta a essere strumentalizzato e continua ancora oggi ad esserlo in ciò che è il tentativo di attribuirgli un’egida sbrigativamente socialcomunista iscrivendolo in una pagina di rivoluzione popolare solo perché a rendersi artefici di esso sono state le masse perlopiù proletarie. Eppure anche il ceto medio e la borghesia sostennero la protesta fondando un movimento che è interclassista e che vale a porre in termini nuovi la questione siciliana. In questa chiave il risultato più significativo ottenuto dai Nonsiparte è stato quello di aver messo l’Italia davanti all’evidenza che i Comitati di liberazione non furono considerati in Sicilia, e certamente in provincia di Ragusa, espressione della volontà popolare.