giovedì 31 ottobre 2019

"La Natività", un capriccio mafioso e un film di reticenze

Gian Maria Volonté nel film "Una storia semplice" tratto da Sciascia

Sono trascorsi cinquant’anni dal trafugamento della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, l’opera di Caravaggio scomparsa nottetempo dall’Oratorio di San Lorenzo di Palermo. Del misterioso furto si è per ultimo occupato Roberto Andò con il film ingarbugliatissimo e poco fortunato Una storia senza nome. Tre anni fa Sky realizzò un documentario, Operazione Caravaggio, in occasione dell’esposizione di una copia rimaterializzata finanziata e donata all’Oratorio di San Lorenzo, e nel 2011 la Rai produsse uno sceneggiato, Il segreto dell’acqua, anch’esso rivolto a trovare una pista ma ottenendo di confonderle tutte, così come ha fatto la mafia che nei decenni si è fatta latrice di più “rivelazioni” venute da affiliati e consisiste nelle più diverse ipotesi, culminate con quella della sua definitiva distruzione.
Il quadro della "Natività"
All'inizio dell'anno un curioso personaggio olandese di nome Arthur Brand, storico dell’arte con la vocazione del detective privato, che si è fatto fama di cercatore di dipinti scomparsi, ha lanciato un appello perché chi possiede il quadro possa farlo ritrovare rivolgendosi a lui in veste mediatore con la giustizia italiana alla quale l’attuale detentore potrebbe dare conto circa la provenienza illecita. E’ convincimento di Brand che il Caravaggio rubato non abbia mai lasciato la Sicilia e che la mafia, responsabile del furto, lo abbia venduto a qualche privato. Brand accampa informazioni ricevute in Sicilia dove intende per qualche tempo trasferirsi allo scopo di seguire meglio la sua personale pista che lo porterà, si dice certo, al ritrovamento. Ma intanto il mistero continua e si complica sempre più. Trattandosi di un caso nel quale l’unico elemento certo sembra la matrice mafiosa, per via delle soffiate che dal suo ambiente sono arrivate, la circospezione è stata massima e tale è tutt’oggi, da fare pensare che l’appello dell’olandese tuonante possa cadere nel vuoto.
Venti anni dopo il furto Leonardo Sciascia se ne occupò nel suo ultimo romanzo breve, Una storia semplice, senza mai nominare né il quadro né la mafia e, per soprammercato, nemmeno il racket di droga che nella sua fantomatica “Monterosso” aveva impiantato una centrale di produzione gestita in combutta con la mafia anche da un sacerdote e da un commissario di polizia.
La trama è ben nota ma anche molto chiara, “semplice” appunto: nella costruzione sciasciana, come al solito romanzesco-fattuale, la conservazione del quadro in una villa di campagna abbandonata, esposto a bella vista per i pochi suoi frequentatori su una cassapanca, non era lo scopo perché la villa venisse utilizzata in forma del tutto segreta da parte della mafia, ma solo “un diletto incauto, un’attività marginale, quasi un capriccio”: laddove dunque si raffinava la droga era, nella visione di Sciascia, presente la bellezza, intesa certamente nel suo enorme valore commerciale che non nelle sue proprietà artistiche. Nel 1996, sette anni dopo la morte di Sciascia e l’uscita del libro, un pentito di mafia, Salvatore Cancemi, dichiarerà che il dipinto veniva ostentato durante le riunioni della Cupola regionale come simbolo di ricchezza e di onnipotenza, “un capriccio” quindi, proprio come Sciascia aveva immaginato circa il suo uso in mano a Cosa nostra. “Ben altro si faceva in quel luogo” scriveva Sciascia, come volendo aggiungere “che ammirare quadri o tenere mercati clandestini di opere d’arte”: e il “ben altro” era la produzione di droga, affare molto più redditizio. 

L'Oratorio di San LOrenzo con la copia rimaterializzata
Sciascia però non solo non nomina il dipinto ma non lascia che lo facciano nemmeno i suoi personaggi. Nella conversazione tra il commissario e il professore Franzò, il primo chiede all’altro se sa a quale quadro la vittima gli avesse fatto cenno e Franzò, che sostiene il punto di vista di Sciascia, risponde di potere solo immaginarlo, che è quanto lo stesso commissario può fare a sua volta, giacché il quadro “scomparso da qualche anno” non può che essere La Natività. Ma nessuno vuole farne il nome. Sciascia teme di avventurarsi in ipotesi azzardate come quella di additare la mafia o pensa che altre siano le piste nelle quali cercare i responsabili?
Questo suo silenzio, certamente immotivato e frutto forse di eccessiva prudenza, sarà la ragione del travisamento che segnerà due anni dopo il pluripremiato film omonimo di Emidio Greco con Gian Maria Volonté e altri big del cinema. La cautela di Sciascia diventerà in Greco una vera reticenza se non una forma di depistaggio. Nel dialogo tra il brigadiere e Franzò sulla responsabilità del commissario, il professore, parlando dell’importanza del quadro nel caso della “congrega” dedita alla droga, dice così: “Per quel che mi ricordo non aveva un valore tale da provocare un omicidio”. Sono parole che non figurano nel testo di Sciascia, come neppure troviamo quelle del brigadiere date in risposta: “Uno sfizio in più, un’attività marginale, un’imprudenza”.
Il Caravaggio, capolavoro inestimabile e tale da poter provocare ben più che un omicidio, diventa nel film di Greco un semplice sfizio che non potrebbe essere causa di alcun delitto. Nella libertà di trasposizione che Greco si prende rispetto al romanzo non rientra però quella di superare Sciascia e di citare il dipinto, anzi viene ancora di più accentuato il proposito di tacerne il nome per via di allusioni che poi finiscono, con le arbitrarie parole del professore Franzò, per costituire fors’anche una copertura. Dovranno passare altri vent’anni perché sia dato per accertato o convenuto che dietro il furto della Natività c’è stata la mafia. Un capriccio, come intuì il pur laconico Sciascia, ma non certo di poco valore, come ha invece preteso Greco.