E’ difficile realizzare serie Tv. La produzione italiana non è riuscita ad andare oltre Gomorra, che però non ha saputo tenere la lunga durata perdendo nell’ultima stagione smalto e appeal. L’ultimo tentativo è Fedeltà, miniserie tratta da un romanzo di Marco Missiroli che ha suscitato tre anni fa più perplessità che interesse e al quale la serie Tv ha apportato variazioni peggiorative.
Questo genere ibrido di cinema e televisione è lavoro specialistico degli americani, che ne sanno fare meccanismi capaci di destare meraviglia perché fondati sull’iperbole, sull’enfasi e l’esasperazione della trama, non senza giravolte a sorpresa, testacoda e ribaltoni che funzionano nella loro arte come moltiplicatori anziché dissuasori. Le serie Tv italiane risentono invece dello spirito del telefilm, sanno della soap opera e fanno quello che gli americani (come anche spagnoli, sudcoreani, inglesi, turchi e scandinavi, ormai del mestiere) non farebbero mai: rallentano i tempi, alla francese, diluendo i dialoghi, riducendo l’azione, cercando non l’effetto speciale ma la battuta memorabile, la citazione da ricordare per fare colpo. Fedeltà non fa differenza, anzi esalta questo modello narrativo, nel proponimento di elevare a nobili teorie esistenziali e principi assoluti temi quotidiani come appunto la vita di coppia, il ménage familiare, il tran tran quotidiano, l’aspirazione personale, cercando in essi il profondismo anziché la vertigine.
Missiroli ha ereditato da Andrea De Carlo una weltanschauung che, se fino agli anni Novanta e in particolare nella stagione del “riflusso” poteva avere un senso perché indicava un disagio collettivo nuovo, oggi sa solo di déjà vu e déjà lu, nulla aggiungendo che non sia stato sperimentato. Per questo anche la serie Tv in questione sa di posticcio e di superato come il romanzo, con in più il vizio tutto italiano di volere scimmiottare gli americani, sicché le scene sono girate in location scelte con cura per fare da cartoline illustrate ma risultando degli sfondi teatrali finti, quasi mai appropriati e verosimili, per modo che anche due coniugi come Carlo e Margherita anziché discutere in casa si ritrovano a passeggiare serenamente lungo i Navigli, mentre non ci sono dialoghi che non si svolgano all’americana en plein air o per anditi e corridoi, accumulando così una tale quantità di incontri fortuiti da fare della coincidenza una scelta di regia, come capita a Carlo di vedere per caso, in una metropoli come Milano, la moglie in moto baciare un altro e alla moglie di vedere il marito con una ragazzina.
Fedeltà è allora un telefilm a puntate che vuole essere un po’ piccante nel segno di una tentazione indomita alla trasgressione e un po’ piccato nella pretesa di sondare gli stati d’animo di fronte al tradimento, sortendo un falansterio di scene di sesso più scorciato che pronunciato e di teoretica della vita infelice. Non regge il romanzo ma non regge neppure la trasposizione televisiva. Carlo Pentecoste e Margherita Verna (gli attori Michele Riondino e Lucrezia Guidone, uno sussiegoso e l’altra ingessata, troppo presi a recitare più che interpretare) sono una coppia di coniugi che alla vita non ha nulla da chiedere se non una bella casa dove vivere. Stanno bene insieme anche sessualmente, se addirittura fanno l’amore in piedi come amanti occasionali in una casa che ancora non è divenuta oggetto dei loro desideri, ma che poi contano seriamente di acquistare fidando senza alcun rossore sui profitti del romanzo che Carlo sta scrivendo: quasi che tale impresa sia oggi davvero possibile a uno scrittore di un solo libro, uno sconosciuto che insegna scrittura creativa in una improbabile università forse come contrattista e che dovrebbe consegnare il secondo che però non completerà mai, anzi lascerà la vocazione di scrittore per farsi editor su invito del suo editore che però lo ha pressato perché consegnasse il libro, come fosse un autore di successo.
La realtà delle cose è piegata alle aporie di una narrazione alla quale serve che Carlo sia un bravo e ammirato scrittore perché una sua studentessa possa innamorarsi e vederlo come maestro e mentore oltre che vagheggiare di averlo come proprio uomo. Non c’è nulla di nuovo nelle sapute dinamiche amorose montate in crescendo, nemmeno gli iniziali scrupoli di lui, uomo sposato e ben più avanti di età, che si lascia irretire da lei, ovviamente giovane e problematica, se non che il vecchio triangolo diventa un quadrato perché anche la moglie cede alle forti braccia di un massaggiatore che è anche un pugile dilettante, poi dandosi anche a un famoso artista, tanto per bilanciare muscoli e cervello.
Il quadrato dunque: una formula che sa di partouze e che il set internazionale ha già da anni scoperto. Solo su Netflix, dove Fedeltà è proposta, fa sfoggio una serie del 2018, Wanderlust, britannica, che risolve le difficoltà di coppia non con il tradimento ma con il consenso reciproco a frequentare estranei, mentre abbondano commedie che affrontano lo stesso fenomeno, la crisi coniugale, sdrammatizzandolo. Fedeltà – prima il romanzo e poi la serie Tv – non fa invece che cercare la drammatizzazione nel gusto del groviglio dei sentimenti che evoca stilemi narrativi e cinematografici da anni Cinquanta. Ma Fedeltà non è che la prova più sbandierata di una tendenza nazionale a coda di topo: partita dalla tragedia postneorealistica, ha negli anni Settanta inventato il "sexy all'italiana" con la commedia del tipo Malizia e oggi è approdata al dramma intimo, tornando ad Amedeo Nazzari ed esitando effetti sia in narrativa che nello schermo tipici della indulgenza italiana per la coscienza annodata, i rovelli, la colpa e il rimorso. Facendo al contrario di quanto sta mostrando il mondo che dal dramma piagnone alla Jean Gabin è passato alla commedia piaciona, mentre noi ricerchiamo il cerebralismo con lo spiegone: come succede proprio in Fedeltà dove ogni dialogo è un esercizio di buona condotta, per modo che il rettore della sedicente università può redarguire il professore, al posto semmai del preside di Facoltà e come un vescovo farebbe benignamente con un prete fuori riga, perché non cada in tentazione con la sua studentessa, lasciando così impregiudicata una questione pur decisiva, se sia stato cioè un “malinteso” quanto una studentessa ha visto nei bagni succedere tra professore e allieva, malinteso che però diventa nei rapporti tra marito e moglie il motivo scatenante di un abbandono reciproco al tradimento. Come dire, si è colpevoli in base al sospetto, che non basta al rettore per assumere provvedimenti, ma è sufficiente a lui per sciogliere il malinteso in una esplicita relazione e a lei per celebrare a letto con altri le proprie frustrazioni. Tutto in un’atmosfera notturna, seriosa, cupa, da sciagura incombente e in un clima permanente di conflitti psicomachici.
Il curioso è che nella finzione tale guerra dei sensi scoperti avvenga nella città più mentalmente aperta e permissiva: una Milano che tuttavia appare autentica nelle riunioni tra amici, negli scenari di fondo, nei cocktail e nei vernissage, nella parlata e nei modi comuni, ma che manca del tutto nei personaggi e nella storia. Storia che, visto il finale aperto (dove marito e moglie fedifraghi recidivi e incaponiti si ritrovano ovviamente per strada a dirsi cose carine), minaccia da brava serie di avere un’altra stagione: di tresche, beghe e bétise.