Articolo già apparso su Letteratitudine
Volendone celebrare la forza innovativa che è stata di titoli quali Io uccido di Faletti e Il nome della rosa di Eco, una certa critica ha finito per fare de La stazione di Jacopo De Michelis (Giunti, pp. 876, euro 19) un romanzo che, comprensivo di tutti i generi, non ne mutua alcuno. In realtà li elude tutti e ne inventa uno nuovo o di originale concetto, il fantasy contemporaneo: un ossimoro letterario nel quale il Medioevo degli elfi e dei maghi integra il racconto metropolitano. Nondimeno, se il raggio di esplorazione e di scoperta non andasse oltre un ambito sotterraneo tutto sommato circoscritto, il romanzo potrebbe inscriversi anche nel modello letterario dell’avventura, pur rivisitata nello spazio urbano, lo spirito dell’avanzamento nell’ignoto risospinto da implicazioni anche spirituali essendo ben presente accanto a quello fantastico e surreale di ricerca di mondi nuovi che rimane comunque l’elemento dominante e centrale.
L’inganno è di vedere non il fantasy ma il thriller commisto al noir e profilato nel giallo via via che la violazione del principio di realtà mostra come fumettistico e perciò irreale quanto invece richiede sin dall’inizio la sospensione dell’incredulità perché sottende la favola (con tanto anche di animali) pensata per un lettore adulto che ami l’intrigo entro un contesto civilizzato e proprio di una moderna e grande città come Milano.
Ecco allora la vera novità portata da De Michelis nel ristagnante pabulum letterario nazionale, una forza che, paragonabile solo a quella da Camilleri introdotta quanto ai modi espressivi, ha inteso – non nella forma ma nella sostanza – rivestire coraggiosamente il fantasy, caro al pubblico più giovane e adatto a un’ambientazione distopica, del carattere del giallo metropolitano amato dagli appassionati del genere: che De Michelis mette nell’avviso di doversi aspettare non tanto di scoprire chi è l’assassino quanto di trovare “l’anello”, quello cioè che nella tradizione norrena, nella materia di Bretagna e nell’Edda è il meraviglioso, l’inatteso, il graal, appunto il magico. Che qui c’è tutto.
Al lettore è richiesto in sostanza di dimenticare le regole echiane del romanzo fondate sul patto con lo scrittore perché non lo tradisca promettendogli un thriller e propinandogli poi un fantasy, visto che è proprio questo che De Michelis fa con tutta intenzione raccontando di buoni a caccia di cattivi, di poliziotti corrotti, di trame oscure, di un assassinio impunito in una Milano riprodotta con assoluta fedeltà topografica per poi innestare piani inclinati che scivolano persino nell’horror e nel demoniaco, con pitoni divoratori e persone possedute da entità infere. Ma se è comprensibile che possa sembrare straniante pensare di avere in mano Chandler e scoprire di leggere Tolkien, non viene comunque meno – ed è questo il fine di ogni romanzo – l’immedesimazione in una storia nella quale la sorpresa alla base del page run è costituita non solo dal colpo di scena del tutto evenemenziale legato agli sviluppi diegetici ma anche e soprattutto dall’improvviso e inaspettato ribaltamento della struttura narrativa che sembra scardinarsi di fronte a casi nei quali una mite ragazza guidata psicologicamente a distanza non da una persona ma da una dea uccide un uomo seviziandolo, una barbona ha il potere soprannaturale di ergersi a sacerdotessa voodoo e di compiere riti e pratiche magiche, uno psicolabile ha una forza fisica satanica e una malvagità di uguale grado.
Qual è dunque l’errore in cui cade il lettore inavvertito? Quello di cercare la spiegazione reale nel fenomeno che è invece prodigioso, per modo che è indotto a tacciare di assurdo ciò che è invece fiabesco. L’errore nasce da un atteggiamento imposto dai modelli consolidati, secondo cui non è conducente che il magico possa fare parte del presente: se allora vediamo Il trono di spade seguendo di buon grado le guerre di potere nelle quali draghi volanti siano le migliori armi o i nemici uomini risorti dalle ceneri, perché riusciamo a conciliare il dato reale e analogico con l’effetto immaginifico e divinatorio vedendo nell’ambientazione medievale la base di giustificazione di ogni eccesso, ci rifiutiamo invece di accettare che fatti inspiegabili avvengano attorno a noi, pur in una Milano la cui morfologia urbanistica underground, inesplorata e misteriosa, ben si presta alla stravaganza, al mito, all’inagito.
Se tuttavia il fantasy contemporaneo è ancora un tema di ricerca, La stazione dimostra con il suo successo in libreria che è già un’acquisizione letteraria. De Michelis ne è stato artefice operando con sapiente e saggia circospezione. L’elemento mantico si inserisce infatti nella trama realistica seguendo una progressione di verosimiglianza per la quale il passaggio da una stretta visione materiale ed empirica degli eventi (la presenza nella stazione centrale di uno sconosciuto che fa trovare animali squartati sempre di maggiore stazza) a una dimensione astratta e metafisica sempre più irreale risponde a una sorta di introibo ad altare dei il cui compito è di trasferire il lettore da un piano all’altro senza che perda il contatto con la realtà fisica di Milano, nello stesso tempo facendo sì che il fantasy contamini il thriller e sortisca un tout-de-même nel quale alla fine un aspetto si compenetra nell’altro. Operazione di narratologia difficile, complicata e delicata che esige certamente un lettore forte preparato e collaborativo. Chi riesce a tenere il passo, non cedendo né alla tentazione di sentirsi in una fiaba né all’istinto di ancorarsi a un’inchiesta, liberandosi anche dell’assillo di sapere che genere di romanzo stia leggendo, gode di stare come in sogno su una terra di mezzo dove può succedere di tutto. E tutto in verità succede.
Romanzo d’evasione dunque quello di De Michelis, che però spinge a riflettere sul lato occulto – la “metà oscura” nella scuola bolognese di Lucarelli – della mente umana e della società civile nella chiave di un’interpretazione del mondo del tutto e solo realistica. Non c’è, oltre la nostra prospettiva, un mondo sul quale fantasticare ma uno da conoscere, che ignoriamo perché lo crediamo ultroneo ed estraneo mentre non è che la nostra parte nascosta. L’umanità disperata eppure vitale che popola il sottosuolo della stazione centrale dove ha ricreato una società parallela e contrapposta è la stessa che in superficie vediamo relegata nei cantucci, esclusa e ridotta alla condizione di specie reietta e pericolosa.
Al di là dei suoi riti barbari, dei suoi miti primitivi, del suo rango bestiale, essa è animata da sentimenti umani forse più acuti e affinati. Non dà valore alcuno al denaro, né tantomeno a un ricco tesoro di gioielli, non si contende posizioni di successo e avanzamenti di carriera, non ricerca il dominio di classe, ma aspira solo alla pace, all’isolamento, all’autonomia, raccolta nella preghiera e nella solidarietà.
Nella cosmogonia di De Michelis questa varietà umana occupa gli spazi abbandonati sotto la stazione ferroviaria, è multietnica e professa fedi ancestrali che incrociano il voodoo africano e il paganesimo celtico. Sono i “figli dell’ombra”, la feccia del mondo e la vergogna della società per essere stati vinti nella guerra quotidiana che si disputa in superficie, appartati per scelta in un’isola deserta formata da uno sconosciuto dedalo di ambulacri e anditi sotterranei che costituisce “l’inconscio di una città”. Una città, Milano, nella quale pare incredibile all’ispettore Riccardo Mezzanotte che “nel ventunesimo secolo ci fosse gente che, respinta ai margini del mondo civile, per ritrovare uno slancio di dignità si era ridotta vivere sottoterra”.
Mezzanotte opera nella Polfer e vuole scoprire chi uccide gatti e cani strappando loro il cuore, inimmaginando che arriverà a toccare con mano una realtà ai confini dell’umano che il suo dirigente gli vieta però di esplorare incarnando la coscienza comune contraria ad andare a vedere l’altro mondo, disinteressata anche a sapere se esista. Laura che lo incrocerà nello stesso percorso è una ventenne volontaria di un Centro ascolto che ha in dote la capacità naturale di cogliere non i pensieri ma le emozioni altrui vivendole come proprie e condividendole. Si imbatte in due bambini con la stella di David al braccio che la condurranno là dove è diretto Mezzanotte, destinati entrambi e insieme a conoscere il “Fantasma” ovvero Adam, la sacerdotessa maman, il “Generale”, il pitone Dan, il terzo livello sotterraneo con l’altare celtico, l’Hotel Inferno. Tutto frutto di fantasia, tra prodigi, pratiche di ierogamia, ierofanti, vestali, possessioni divine, apparizioni celesti, ma nella realtà i sotterranei della Centrale sono stati in parte, prima dei lavori di ristrutturazione, un coacervo di vuoti e caverne dove decine di senzatetto trovavano dimora. De Michelis li ha ripopolati della stessa “congrega di sbandati e derelitti che abitava più o meno stabilmente in stazione”, rianimando anche i luoghi adiacenti al binario 21, punto di partenza degli ebrei deportati.
Il romanzo è allora pure un tributo alla memoria della Shoah, ma è innanzitutto un contributo alla rappresentazione della Milano delle contraddizioni, della sofferenza umana (il sottosuolo dostoevskijano), della corruttela, come della rettitudine, del volontariato, del sacrificio. La figura di Laura è la più riuscita e amabile. Grazie a lei appaiono in una luce positiva anche orchi e mostri come Adam e maman. In lei si riflette la città operosa del fare e del dare, dell’abnegazione e dell’altruismo. Riccardo, pur essendo il personaggio più sulla scena, il primo protagonista, sembra una sua spalla e interpreta il sentimento del milanese scapestrato e onesto, il rigore dello Stato e l’oltranza dell’anticonvenzionale.
Per vie oscure e milanesi che si rincorrono, Laura e Riccardo sono la riproposizione moderna dei manzoniani Lucia e Renzo, altrettali sposi promessi. E a ben vedere, nella netta distinzione di buoni e cattivi, La stazione non è che un remake in nuova pasta dei Promessi sposi, con una milanesità portata alle maggiori punte e una demarcazione di bene e male senza concessioni. Ma in De Michelis, a fare una differenza, c’è un rovesciamento dei valori umani che opera come un riequilibrio e una riassegnazione di meriti e colpe: i buoni si rivelano cattivi e viceversa, giostrando attorno alle figure di Riccardo e Laura che nell’amore che piano piano li unisce trovano il loro punto di stabilità e coerenza. Alle loro spalle svetta Milano con la sua Centrale al centro: “Ammantata nel suo funereo biancore, la stazione li attendeva in fondo al viale, possente come una fortezza, solenne come un mausoleo, enigmatica come una piramide egizia”. È sempre lì, ma adesso è diventato molto difficile entrare senza chiedersi cosa c’è o c’è stato sotto i piedi. De Michelis ha voluto omaggiare Milano col renderla un incubo ai milanesi.