Se Tomasi di Lampedusa fosse andato a Simancas, dove dal Cinquecento è attivo il più grande archivio militare dell’epopea spagnola, avrebbe trovato quanto un altro palermitano, Giovanni Marrone, ha pubblicato nel ’95 in appendice al suo Città campagna e criminalità nella Sicilia moderna (Palumbo): gli atti del processo che nel 1583 fu celebrato contro tale Mario de Tomasi, un capitano d’arme di Licata dalla fedina da brivido: “Autore di infiniti abusi e di crimini che, in un crescendo continuo, andavano dalle estorsioni alle concussioni, ai furti, fino alle crudeltà più impressionanti, provocando la morte di numerosi infelici, accumulò un patrimonio valutato intorno a ventimila scudi”. Un patrimonio provento della sua più lucrosa attività: il commercio delle teste di banditi alla macchia. Marrone però non si avvide che quel Mario de Tomasi altri non era che il capostipite dei Tomasi di Lampedusa, dinastia che vanterà invece il duca-santo Giulio quale primo antenato vissuto nel Seicento. Ancora nel 1987 il nome di Mario Tomasi figurava in cima alla genealogia di Andrea Vitello in Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Sellerio), ma senza che ne fosse indicata la vera natura di masnadiero, definito appena “oscuro armigero”. Sarà nel 2008, nella nuova edizione della sua monografia, che Vitello darà finalmente conto di che pasta fosse l’armigero di Licata. Non può più tacere in realtà, perché un anno prima Andrea Camilleri ha parlato (citando nelle Note un mio articolo uscito su "La Stampa") del vero capostipite in Il colore del sole, dove Caravaggio incontra Mario Tomasi, entrambi ribaldi e attaccabrighe, e finisce per litigarci, e in Le pecore e il pastore, ricostruzione del caso di dieci suore del monastero Santissimo Rosario di Palma di Montechiaro (la terra dei Lampedusa) che nel 1945 si tolgono la vita per chiedere la salvezza del vescovo: Camilleri scopre che nel 1955 l’autore del Gattopardo è stato due volte in visita al monastero (fondato dal duca-santo che vi assegna la sua secondogenita suor Crocifissa, la Beata Corbera del romanzo) e loda suor Enrichetta così fervidamente per la situazione che trova da indurla a uno scarico di coscienza e confessare nel 1956 al vescovo di Agrigento il segreto circa le dieci consorelle suicide.
Camilleri sa dunque di Mario Tomasi, ma non da Vitello, che si è limitato nella prima edizione a segnalare che l’armigero sposa, proprio nell’anno del processo, una Francesca Caro, baronessa di Montechiaro e signora di Lampedusa. È infatti con l’attribuzione di “primo barone di Montechiaro” che il capostipite scrive una memoria difensiva indirizzata al re di Spagna e rivolta contro il “visitador” regio che istruisce il suo processo, perché ne sia impedita la «prosecuzione». Ne avrà, come si ricava dal testamento del figlio Giovanni, la condanna all’esilio.
Il frontespizio del lungo ricorso costituisce la seconda illustrazione del libro di Gioacchino Lanza Tomasi Biografia per immagini di Tomasi (Enzo Sellerio, 1998) e proviene dai documenti di casa Tomasi andati in gran parte distrutti nel bombardamento del ’43. Giuseppe Tomasi non poteva dunque non conoscerne l’esistenza né ignorare che artefice della «razza di santi» lampedusana fosse stato un delinquente della peggiore cotta. Ne parlava anche al cugino Lucio Piccolo, che si confidò con uno studioso di Capo d’Orlando dal quale la notizia giunse a Vitello. Dunque Il Gattopardo può essere visto sotto una luce nuova e sibillina risuona la celebre frase che suggella la parabola dell’aristocrazia siciliana al fondo di un’esperienza personale, quella del Principe, che sembra espiatoria: “Noi fummo i gattopardi, i leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene”. Senonché Don Fabrizio pensa proprio il contrario, se vede negli «smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati» e nella «doppia fila di antenati corazzati e infiocchettati» i tratti torvi dello sciacallo e della iena che era stato il loro primo ascendente.
Vitello ha voluto scorgere l’ombra di Mario Tomasi nel commento di Lampedusa al Caesar di Gundolf sul mensile “Le Opere e i Giorni”, dove l’autore del Gattopardo teorizza il diritto ad una seconda biografia, «senza confini di tempo o di spazio, che narri l’aggirarsi dell’ombra» e le «conseguenze delle sue apparizioni». Il riferimento alla macchia originaria può sembrare esplicito se di Lampedusa si accoglie l’idea di un uomo che del travestimento e della finzione fa uno stile di vita, tanto da nascondere a se stesso e agli altri di non avere il tumore che lo ucciderà.
Più che il bisnonno Giulio Fabrizio, il Principe ci appare allora lo stesso Lampedusa, trasposto nella coscienza dell’ultimo discendente cui spetta con la propria morte, tanto “corteggiata” e ricercata, ”primo ed ultimo di un casato” tenuto in spregio, nel dichiarato “disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano”.
In una lettera del ’57 all’amico Enrico Merlo, Giuseppe Tomasi scrive di non sapere chi sia Angelica, ma aggiunge che ricorda Sedàra, che “come nome rassomiglia molto a Favara”. E Favara è la roccaforte nella quale il capitano d’arme Mario de Tomasi guida per 22 giorni un saccheggio senza risparmio. Sicché sui modi volgari di Sedàra si possono sovrapporre quelli del primo Tomasi, barone per solo effetto del matrimonio e villano senza emuli: nessuno dei Lampedusa porterà infatti - e non a caso - il suo nome.
Del resto quando, inopinatamente, Lampedusa scorge negli occhi di Concetta «un bagliore ferrigno» e le riconosce «il sangue violento dei Salina» non può che pensare a Mario Tomasi, il cui spirito nefasto si è trasfuso nell’unica figura di casa Salina che è vista con sfavore e che finirà per addirsi al mercimonio di reliquie compiendo dunque, se non reiterando, un reato che suona come confutazione della vocazione alla santità dei Lampedusa.