Articolo uscito il 16 settembre 2022 su Libero
Più che una saga dinastica, Al di qua del fiume (Nord) di Alessandra Selmi è la periegesi di un “triangolo da ottantacinque ettari incastrati tra due fiumi”, l’Adda e il Brembo, oggi noto come Crespi d’Adda, frazione di Capriate e bene Unesco. Il romanzo non narra la parabola di una famiglia ma i rivolgimenti di un luogo. Sul fondo della storia dei Crespi si erge infatti il villaggio di operai che vive di vita autonoma, talché quando passa di proprietà e diventa un’altra cosa il romanzo si chiude, mentre potrebbe continuare di generazione in generazione seguendo ancora le vicende della stessa famiglia bustocca.
La storia di un luogo, dunque: ma è tale la compenetrazione dei tantissimi personaggi nel luogo in cui “si nasce, si viene battezzati, sti studia, ci si ammala e poi si muore senza mai la necessità di andare al di là del fiume” che una delle protagoniste, Emilia Vitali, lascia il borgo solo quando i padroni non sono più i Crespi. La sua vita come quella di tutti gli altri è interamente circoscritta entro il limite dell’Adda, a definire un mondo separato e avulso che permea le coscienze e crea un’umanità diversa, tanto che Fredo (nato nel villaggio e andato via per fare da segretario a Crisostomo Crespi, dunque emancipato) può dire a Carlo Vitali: “I signori vi concedono quel che basta affinché non vi poniate domande, non alziate la testa, non guardiate fuori da questo villaggio, oltre il vostro naso, al di là del fiume”. E Remigio Malberti, fratello di Fedro, quando va al fronte “per la prima volta scopre il mondo al di là del fiume”.
Al di qua del fiume vivono i soli operai, non i signori. I Crespi, nati e noti come “tengitt”, tintori, abitano invece a Milano e soggiornano sulle rive del Lago d’Orta, lontano dal mondo che hanno creato dal niente e dal quale, pur con la massima condiscendenza verso gli operai, si mostrano e si tengono assolutamente distanti. Venuti anche loro dal niente, si educano al tenore di vita aristocratico ponendosi nei confronti dei veri nobili nell’atteggiamento dei Sedàra di fronte al principe di Salina. Ma imparano presto modi e metodi, fondando una borghesia bergamasca illuminata e avvertita che nella modernità trova le chiavi del proprio successo economico.
Alessandra Selmi ha saputo intrecciare senza scompensi la vita dei Crespi con la storia del loro villaggio, rilanciando una tendenza che sta prendendo piede quanto alla preferenza del romanzo storico costruito nei modi della saga familiare e ambientato nella Belle Époque. E l’Editrice Nord ha trovato in lei un’altra Stefania Auci pronta a rinverdire splendori e miserie di grandi casate a cavallo di due secoli. Non è un fenomeno solo italiano. Il francese Pierre Lemaitre ha appena pubblicato Il gran mondo, altra saga internazionale che congiunge le cime con i grandi capolavori del genere, dai Viceré ai Buddenbrook, stessa epoca e stesso spirito.
La Selmi si iscrive in questo campo e dà un’opera che può piacere anche molto, a patto di non essere sottili (e non chiedersi come due bambini di dieci anni possano amare molto il latino o come si faccia a mangiare un cavallo non del tutto morto) come anche di rimanere concentrati. La vasta pletora di personaggi, mai descritti fisicamente se non qualcuno superficialmente, induce a perderne le tracce e a fare come per Cent’anni di solitudine: segnarsi cioè a parte le identità e le parentele di ognuno di essi. Occorre inoltrarsi non poco nel romanzo prima di potersi districare non solo tra i personaggi ma anche tra gli eventi che troppe volte vengono non narrati ma, alla maniera della tragedia greca, riportati come già avvenuti, entro un gioco di tempi al passato e al trapassato che determina smarrimento e distrazione. Se il lettore manca di assistere agli highlight della vita - morti, matrimoni e nascite - eventi appresi a distanza di anni e per via di citazioni, perde l’immedesimazione e la condivisione del destino di ciascuno dei protagonisti, nessuno dei quali gli appare vicino o un eroe. E soprattutto nessuno rimane con lui, una volta chiuso il libro.
La difficoltà dell’autrice è di riempire il tempo, per cui fin troppo repentinamente ci si ritrova sbalzati in avanti e messi di fronte a contesti mutati, nuove figure e scenari inattesi, ancor più estranei e astratti in un’epoca di cambiamenti vertiginosi che rimangono rumori e scene di fondo: dalle prime lotte operaie alla Grande guerra, dagli scontri di piazza al fascismo. Ci rendiamo conto del tempo che passa quando per esempio Cristoforo Crespi, artefice e inventore del cotonificio della fortuna, viene chiamato dalla Selmi “vecchio”, ma nulla sappiamo dei fatti e delle dinamiche che lo hanno portato a uscire di scena, nonché della successione alla guida dell’azienda del figlio Silvio. Il quale si ritrova d’émblée padrone e quando sembra vicino a chiedere la mano a Emilia riappare invece sposato e con prole.
In questo romanzo polifonico e diacronico, che offre un carosello vorticoso di mogli, mariti, figli e nipoti che conosciamo solo per nome, si distinguono tuttavia alcune figure di rilievo grazie unicamente alla forza dei dialoghi, la parte più riuscita, quella che consente di avvicinarsi di più ai personaggi: Fedro innanzitutto, che sembra esemplato anche nel carattere fragile e problematico sulla figura di Fedro Corleone del Padrino; Amalia, bellissima e dotata di poteri paranormali; Rino Agazzi, socialista e ribelle; Elvira, donna controcorrente e libertina, forte di una spiccata personalità; Daniele Crespi, scanzonato rampollo e sconsiderato imprenditore, infine beniamino del padre perché eroe di guerra. E poi Emilia, la figlia del villaggio che coltiva da bambina un sogno proibito nella consapevolezza che non si avverrà mai: fare di Silvio Crespi il proprio uomo, oltre che l’amico di sempre. Li divide il fiume, che mai può unire due sponde lontanissime sulle quali due classi sociali sono radicate una al di là e l’altra al di qua.