Il famoso “terzo livello”, che nell’opinione comune riconduce alla politica la responsabilità delle stragi di mafia, per Falcone non era il Gotha istituzionale ma quello nel quale Cosa nostra iscriveva i politici pericolosi, da eliminare. Nel suo nuovo libro, Vita e persecuzione di Giovanni Falcone (La Nave di Teseo), Claudio Martelli (figura tra le più rappresentative della Prima repubblica) rovescia la vulgata e, distogliendo l’indice accusatore dal mondo politico, addita i magistrati, quelli che perseguitarono il giudice ucciso trent’tanni fa. L’ex ministro della Giustizia e storico vice di Bettino Craxi scrive di aver pensato ogni anno a questo libro come a un debito da restituire a Falcone e a se stesso. Lo ha fatto per trent’anni forse per attendere che i fatti fossero storicizzati prima di mettere sotto accusa l’apparato giudiziario.
“Certamente conta anche questo” dice Martelli. “Il tempo aiuta a elaborare anche i lutti, come si dice, e ad avere una visione più ordinata degli accadimenti succeduti in modo vorticoso. Naturalmente i dubbi e i debiti li avevo sin da allora. Qualche cosa ne avevo anche scritto nel mio libro Ricordati di vivere, poi in articoli e in interviste, però non avevo mai messo in ordine i ricordi e le carte.”
Ha anche voluto riepilogare le tante e complesse vicende di questi tre decenni.
Certo, per esempio ho ricostruito i vari processi finiti nel nulla, sia quelli relativi alla cosiddetta ‘Trattativa’ che alla strage di Via D’Amelio, ma pure le sentenze con le loro motivazioni, a cominciare dal caso Andreotti che si inscrive nell’ambito di quella storia. Tutto questo aveva bisogno di essere ripensato, concatenando e trovando i nessi tra i singoli episodi.
Si può dire che il suo è stato anche uno scarico di coscienza, oltre che un modo per rendere giustizia ai fatti?
Guardi che non avevo nulla da scaricare, piuttosto avevo una coscienza da esprimere, ma è vero che intendevo fare giustizia. A questo proposito mi è capitato di presentare il libro con Matteo Renzi, che avrà dei difetti ma certo non è privo di intelligenza critica degli avvenimenti. Ha detto che questo libro riscrive la storia di trent’anni e in qualche modo la rovescia come un guanto perché per trent’anni si è parlato confusamente, senza indicare che nomi sbagliati, Mannino, Andreotti, Dell’Utri, Berlusconi, e si è continuato a celebrare la magistratura e incolpare delle stragi indeterminate sfere politiche. Le cose non stanno così. Ciascuno ha le sue responsabilità, ma nessuno c’entra con Capaci, D’Amelio e le stragi in continente.
Però lei scrive che “è ormai chiaro che c’è stata una scellerata volontà di colpire Falcone anche da parte di uomini dello Stato”. E adombra scenari sui quali si muovono mafia, magistrati e Servizi uniti nell’“interesse superiore di mantenere lo status quo in Sicilia che garantisse la convivenza pacifica di Stato e mafia”. Allora la domanda è questa: si può uccidere Falcone senza che la politica ne sappia nulla?
La discussione resta aperta. Io individuo responsabilità precise, che sono tra l’altro segnalate dallo stesso Falcone quando dice ‘Mi hanno crocifisso’, ‘Mi hanno inchiodato’, ‘Mi hanno esposto alla vendetta di Cosa nostra’. Si riferisce sempre a suoi colleghi magistrati, non a politici.
Quindi lei dà massimo rilievo alla celebre frase di Borsellino: “La magistratura che forse ha più responsabilità di tutti cominciò a far morire Giovanni Falcone ben prima che la mafia lo assassinasse a Capaci”.
È una frase sulla quale ho riflettuto davvero molto a lungo. Mi sembrava un po’ esagerato dire che la magistratura ha cominciato a far morire Falcone per non promuoverlo a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Ma non si muore, mi sono detto, per una mancata nomina. Borsellino quindi intendeva dire una cosa più profonda e cioè che quella mancata promozione segna l’inizio della persecuzione contro Falcone. Succede insomma come a un generale che vince trionfalmente una battaglia e invece del riconoscimento che si aspetta viene degradato. Questo succede a Falcone, che di fatto è il capo dell’Ufficio istruzione perché conduce il maxiprocesso e opera nel solo organismo giudiziario che abbia, anche prima di Chinnici e prima ancora con Terranova, combattuto seriamente la mafia.
Secondo il suo teorema, “due linee parallele” avrebbero portato al delitto Falcone: quella sulla quale la magistratura fa morire “professionalmente” il giudice e l’altra sulla quale la mafia lo elimina “fisicamente”…
Non è un mio teorema, ma sono parole di Falcone. Quando commenta la mancata nomina con il suo collega Vito D’Ambrosio e poi con Fernanda Contri del Csm, i pochi che votarono per lui, usa espressioni del tipo: ‘Non lo avete capito che mi avete inchiodato? Adesso la mafia può eseguire la sentenza di morte che ha pronunciato da tempo contro di me’.
“Si muore quando si è soli” disse infatti.
Esatto.
Ma le due “linee parallele” non si incrociano mai o sono intersecate da una terza, quella politica? Insomma ha avuto o no colpe di qualche tipo la sfera politica?
Bisognerebbe sapere chi, quale partito, in quali circostanze. Io so che contro Falcone hanno combattuto anche a livello politico prima la Destra tradizionale (non solo fascista), poi anche la Dc reazionaria: dicevano che non si può processare la mafia perché la mafia è un fenomeno sociale, dunque come si fa a processare un fenomeno? Indicateci individui, dicevano, e noi li processeremo e condanneremo.
Quanto alla famosa “Trattativa” Stato-mafia è però innegabile che la politica ha avuto un ruolo di primo piano.
Si tratta di una vicenda successiva che non bisogna confondere con i delitti Falcone e Borsellino. Lì c’è certamente una responsabilità politica, ma non c’è dubbio che si è avuto non una ‘Trattativa’ quanto un cedimento dello Stato, come l’ho ripetutamente chiamato ben prima di questo libro. Da ministro protestai contro i mancati rinnovi del 41 bis prima a 150 poi a 350 mafiosi detenuti, perché si dava un segnale di debolezza da parte dello Stato, prendendo peraltro un abbaglio perché si pensava di trattare con quella che Conso chiamava e poi tutti hanno chiamato ‘l’ala moderata di Cosa nostra’: per intenderci Ciancimino e Provenzano. Falcone si sarebbe molto arrabbiato a sentire dire che Ciancimino e Provenzano rappresentassero l’ala moderata.
La “Trattativa” non fu innanzitutto il tentativo dello Stato di tenere buona la mafia?
Si partiva dall’assunto che si esagerasse da entrambe le parti: la mafia con le sue stragi e lo Stato con la repressione più dura, le riforme della procedura penale, la caccia sul territorio, il 41 bis. E io ho personalmente sentito pesantemente questa accusa di esagerazione, così come anche il ministro Scotti, artefice dello scioglimento per mafia di numerosi Consigli comunali del Mezzogiorno in gran parte a maggioranza democristiana.
Suo e di Scotti fu comunque il famoso decreto cosiddetto Falcone del 7 luglio 1992 sulle misure straordinarie contro la mafia.
Già. E successe che si riunirono, separatamente è ovvio, sia il Gruppo parlamentare della Dc che quello del Pds per stabilire entrambi che il nostro decreto era incostituzionale e non poteva essere approvato, anzi non doveva: tant’è che l’iter legislativo venne rallentato e poté essere infine varato solo dopo la morte di Borsellino. Ci furono resistenze politiche all’insegna del fatto che non bisognava esagerare, che era come dire che si era esagerato.
Lei dice che nessun governo come quello Andreotti di cui lei fu vicepremier e ministro Guardasigilli ha fatto di più contro la mafia. Ma è un fatto che Falcone e Borsellino furono uccisi sotto quel governo. Com’è che fece così tanto e poi subì la peggiore sconfitta?
È sempre così. Se uno osa sfidare Cosa nostra rischia di pagarne le conseguenze. E così è stato. Anche io sono stato ripetutamente oggetto di tentati attentati non riusciti per mia fortuna o forse perché abbastanza protetto. Ma è una verità inconfutabile dire che nessun governo ha fatto di più. Nel passato, diciamo da Portella della ginestra a tutti gli anni Settanta, accadeva che si facessero anche dei processi contro i mafiosi ma finivano quasi sempre nel nulla. C’era anche una debolezza strutturale. Mi hanno spiegato come funzionavano le cose. Il carabiniere stilava dei verbali incomprensibili, non solo sgrammaticati ma anche incoerenti, per cui i Pm non se ne facevano niente, non essendo una base sufficiente per istruire un processo, e allora i processi finivano nel nulla e se non finivano nel nulla ci pensava la Cassazione. Sintetizzando anche grossolanamente, si può dire che c’è stata una convivenza tra mafia e Stato in senso generale, comprendendo la magistratura.
Tale “debolezza strutturale” fu anche una condizione politica.
Certo. Ho ricostruito dall’inizio la storia dell’occupazione americana per rilevare come utilizzasse figure quale Lucky Luciano per muoversi nella Sicilia liberata: quando dovevano nominare dirigenti pubblici si rivolgevano ai mafiosi o alla Chiesa, che sono le sole cose che gli americani conoscevano. Lo Stato italiano era in disfacimento, non c’era ancora in quell’interregno seguito al crollo del fascismo un’Italia democratica e si sviluppò in Sicilia un tentativo di secessione. Cosa accadde quindi in questo quadro? Che a prendere il controllo è la Dc, non certamente i socialisti e neanche i comunisti, che non hanno né la forza sufficiente né la chiarezza politica per affrontare un problema di questa portata: sapevano reagire, facevano manifestazioni e organizzavano il sindacato, che non a caso ha avuto il maggior numero di vittime in quel periodo…
Più comunisti che socialisti.
Beh, i capi erano quasi sempre socialisti. Del resto fino alla Costituente il Partito socialista è il partito maggiore della Sinistra, solo dopo il ‘48 i rapporti di forza muteranno.
Si diceva del governo Andreotti. Lei da ministro fece sue parecchie concezioni di Falcone in tema di giustizia: dal ruolo di parte del Pm…
No no… Non me le suggerì Falcone, semmai io ho rafforzato e condiviso le sue convinzioni. Non dimentichi che fui il primo firmatario del referendum sulla giustizia giusta di cui parlavamo già nella campagna referendaria dell’86-’87…
Non ebbe il tempo di realizzare quelle idee o il contesto glielo impedì?
Noi socialisti con i radicali e gli altri che si aggiunsero nella campagna referendaria pensammo anche di affrontare il tema del Pm, ma non trovammo appiglio perché i nostri più esperti giuristi ci dissero che non era possibile perché avremmo incontrato ostacoli di natura costituzionale.
Sul tappeto c’era anche il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, tenuta in sospetto da Falcone e da lei giudicata un errore.
Certo che è un errore. Il mio era anche un fraintendimento voluto della lettera della Costituzione, perché non si intendeva che il Pm dovesse simultaneamente occuparsi di mille denunce e istruire mille processi, ma si intendeva il principio per cui se il magistrato ha notizia di un reato deve perseguirlo, senza che ciò però escluda affatto che in Parlamento si definisca una graduatorietà, una gerarchia nella gravità dei crimini. Mi spiego?
Senonché ancora oggi l’obbligatorietà dell’azione penale è un caposaldo del nostro ordinamento.
Certo. La Corte costituzionale non ammetterebbe mai un referendum del genere. E questo fu l’impedimento che fermò me e Falcone.
Per Falcone, Andreotti peccò più per omissione che per commissione. Ed è strano che non conoscesse il peso e la prossimità a Cosa nostra di Andreotti e di Lima in Sicilia. Davvero questo pensava o era solo piaggeria perché lavorava per il governo Andreotti?
Pensava proprio questo e non credo affatto che fosse colpevole di piaggeria. Credo invece che non avesse elementi a quel tempo per dire cosa diversa. Non conosceva tutta la parte del caso Andreotti che sarà nota solo negli anni Novanta dopo le rivelazioni di pentiti, come Mannoia e Calderone, diversi da Buscetta. Il quale si ricorda cosa diceva a Falcone? ‘Di questo non voglio parlare, altrimenti andiamo a sbattere sia io che lei’. Nel processo Andreotti la deposizione di Buscetta è gravida di suggestioni, allusioni ma non fornisce prove precise.
E lei è d’accordo con il giudizio di Falcone?
Beh, oggi sappiamo quanto su Andreotti si è saputo dopo il processo e la sentenza finale. Una sentenza che sembra scritta da un chirurgo, il quale isola magistralmente le responsabilità, se non le omissioni, di Andreotti a un’epoca in cui il reato di associazione mafiosa non esisteva ancora, perché viene introdotto nell’82. Cosa stabilisce la sentenza? Che dopo il 1980, dopo il delitto Mattarella, Andreotti rompe con il ‘sodalizio criminale’, l’espressione usata dalla sentenza: il che vuol dire che prima c’era stato un accordo, un’intesa, probabilmente mediata dai cugini Salvo, e in alcuni casi non si escludono rapporti diretti con la mafia: tant’è che dopo Mattarella Andreotti si reca a Palermo (lui dice di non ricordare, cerca di contraddire questa tesi dell’accusa, ma la Cassazione l’accoglie in pieno perché ci sono testimonianze convergenti) e fa una scenata ai mafiosi riuniti: ‘Come avete osato? Cosa avete fatto? È una cosa inaccettabile’. E Stefano Bontate che era il capo risponde tranquillamente papale papale: ‘Non dimenticarti che in Sicilia comandiamo noi, non tu’. Questo conferma gli assunti di Falcone circa il ‘terzo livello’ politico che comanderebbe sulla mafia: non esiste un terzo livello, semmai al contrario in alcuni casi è la mafia che ha comandato sui politici.
Dopo la mancata nomina, Falcone (che lei ha conosciuto bene anche come uomo) si chiude e si isola. Ma perché non contrattacca e affronta la magistratura appellandosi all’opinione pubblica? Non è certo un tipo arrendevole, se si pensa alla foga della sua audizione davanti al Csm e al piglio dei suoi scritti che lei pubblica. Perché non tira fuori le unghia?
Non è così. Falcone non pensò mai di arrendersi. Ci fu un episodio che forse non ho riportato nel libro. Siamo alla vigilia delle elezioni politiche del ‘92 e ai socialisti siciliani, in particolare credo a Salvo Andò, venne l’idea di candidare Falcone. Lui lo viene a sapere e viene da me molto agitato: ‘Tu vuoi che io faccia il capolista a Palermo?’. ‘No, io voglio che tu faccia il procuratore nazionale antimafia’. ‘Ah, bene’ si rasserenò. Ad Andò che lo conosceva bene era sembrata una cosa buona, ma io mi sono piuttosto seccato per un’iniziativa presa senza consultarmi. No, lui non si era affatto arreso. Fui io a dirgli di lasciare a me la polemica politica. Scusi, ma la sua domanda la interpreto come una boutade. Falcone non era mica Di Pietro che andava in televisione e diceva al governo cosa doveva fare. Falcone era un servitore leale e onesto dello Stato.
Senz’altro, ma il silenzio che tenne non gli giovò per niente. Si isolò e si espose ancora di più.
Lui replicò dicendo anche in televisione che erano infondate le accuse di non essere più indipendente perché lavorava presso un ministero e io osservai che era stupefacente come per la prima volta si contestasse a un magistrato di collaborare con un governo. Al ministero della Giustizia ci sono, in tutte le posizioni dirigenziali, ben 130 magistrati e nessuno li ha mai accusati di non essere indipendenti. Questo argomento è stato usato soltanto contro Falcone ed era un’infamia. Io allora lo dichiarai e venni denunciato e poi processato per l’accusa di aver calunniato il magistrato querelante - si chiamava Coccia del Csm, ma non era il solo - che aveva usato tale argomento. In primo grado fui anche condannato, poi fui assolto in appello e non ci fu ricorso in Cassazione. Fu un’infamia, ripeto.
Cosa è cambiato oggi nella magistratura quanto ai rapporti interni al sistema giudiziario?
Lo spirito di ribellione della magistratura di allora aveva connotati politico-ideologici di cui erano portatori le correnti interne che avevano definito la magistratura un organo legittimato a esercitare funzioni di contropotere. Ecco, questa era la devianza degli anni che io ho vissuto facendo politica e anche il ministro della Giustizia. Adesso quello spirito c’è di meno. Sì, viene usato strumentalmente quando si grida all’‘attacco all’indipendenza della magistratura’ in occasione di certe misure del governo, ma più in generale gli organi rappresentativi della magistratura si sono affossati da soli. Epperò l’Associazione nazionale magistrati, nessuno sa perché, non si affossa mai - e questo mi colpisce molto. Il presidente della Repubblica dice che è inaccettabile il degrado delle correnti, ma intanto le correnti continuano a riunirsi ufficialmente e concordano le nomine al Csm e anche le nomine del Csm prima che il Consiglio agisca e all’interno dell’Anm. Forse davvero un solo sindacato sarebbe accettabile, anche se non se ne vede la necessità, perché le rivendicazioni sindacali vengono automaticamente rappresentate in Parlamento, ma ad ogni modo che facciano un sindacato nulla lo vieta. Che però facciano un’associazione politica è un abuso, un arbitrio, uno scandalo. E dunque è qui che bisogna intervenire per recidere il cordone ombelicale che consente a un’associazione privata qual è l’Anm a legarsi al Csm che è un organo costituzionale e ad assoggettarlo a se stessa.