venerdì 10 ottobre 2025

"Attenti al libro", programma Tv per stare attenti alla Rai

 

Per fare appassionare i telespettatori ai libri bisogna portarli a leggerli e non solo a conoscerli. La trasmissione “Attenti al libro” di Francesca Fialdini, in prima serata su Raitre, si limita a segnalarne i titoli per giustificare la partecipazione in studio di ospiti che ovviamente sono tutti noti.
Praticamente uno show che si serve dell’aringa rossa, in letteratura detta red herring, un espediente che svia il lettore su false piste distraendolo dalla verità. I libri perciò costituiscono l’esca e gli ospiti, che non sempre sono gli autori, perché a volte (come nel caso di Fiorella Mannoia, invitata per cantare una canzone e poi segnalare un libro) si tratta tout court di nomi famosi, si ritrovano a mezzo tra “Belve” (ma senza morsi) e “Domenica In” (con ogni piaggeria).
Del resto la conduttrice viene da trasmissioni del tipo “Una Mattina“, “A sua immagine”, ma anche “Lo Zecchino d’oro” e programmi sui disturbi alimentari e altri su ragazze coraggiose. Una tuttologa come i ministri italiani che, pur avendone pubblicati, non si è mai occupata di libri. E si vede. Nessuna nota critica, nemmeno il tentativo di una sinossi intelligente, niente rimandi a contesti, parallelismi, correnti: solo l’ideuzza piuttosto banale di dividere i libri secondo i generi, chiamati per giunta “categorie” come si fa nei siti web, sceglierne uno e poi trattenere l’ospite non su quello ma su tutt’altro.
Nella prima puntata la Fialdini ha intervistato in collegamento Corrado Augias, le cui trasmissioni sui libri sono state canoniche, anche se tutte fin troppo scolastiche e piuttosto manieristiche, non alla maniera di “Pickwick” di Barrico, per capirci, dove la letteratura serviva ad aprire orizzonti di senso e di pensiero. E sorprende che Augias abbia accettato di legittimare, al suo debutto, una trasmissione che sin dal titolo e dal jingle (Lucio Dalla sicuramente non balla) anziché accattivare suona respingente.
In sostanza Fialdini fa come Lilli Gruber, la quale intrattiene i suoi ospiti (sempre gli stessi, a giro: tali anche per Floris e Formigli) sul tema della sera e mostra alla fine le copertine dei loro ultimi libri senza spendere una parola su di essi, semmai lasciando che in due secondi si pronuncino gli autori stessi in sede di autopromozione gratuita. 
Ma se i talk show non sono tenuti a parlare di libri e possono solo farne cenno, un programma come “Attenti al libro” (nella paronomasia del titolo, si spera, e non nella sua parodia) è obbligato a trattare i libri con attenzione, interesse e rispetto, prefiggendosi il primario scopo di convincere il telespettatore a mutarsi in lettore. Quello che un servizio pubblico qual è la Rai deve fare. E che non fa.
Certo, anche la Rai segue logiche di audience e sa che nel prime time una trasmissione sui libri che non sia di cinque minuti è destinata al flop. Però, nelle aspettative di Raitre, potrebbe avere successo o perlomeno farsi un pubblico se ne viene fatto appunto un format che alterni personaggi legati più o meno vagamente a un libro, il proprio o altrui.
Siamo sempre lì. Manca in Tv una trasmissione dove i libri siano considerati chiavi che schiudano mondi, che per il loro contenuto e non per il loro tema suscitino dibattiti di idee, anche polemiche, discussioni che non siano nel segno degli stucchevoli talk che passano ogni sera rimpallandosi gli stessi argomenti, gli stessi ospiti e le stesse tirate, fatte anche di ideologie omologhe. Ma per fare questo occorrono conduttori alla Baricco, che i libri li leggono e poi – fatta la tara a una sua discreta supponenza e al suo smodato sussiego - li discutono senza concessioni all’autore. Non ce ne sono. Le interviste agli scrittori indulgono sempre a concepire domande di comodo, concordate, pervase della migliore enfasi, propedeutiche a un giudizio positivo di valore quando non sono tipicamente alla Marzullo, caso nel quale le risposte sono sempre alla Catalano.
Gli scrittori che vanno in televisione, se non finiscono come Mauro Corona nelle mani di Crozza, hanno la propensione a mutarsi d’emblée da intellettuali a showmen con molta attitudine a mostrarsi chierici e laudatores del potere costituito. Viene loro massimamente richiesto non di esprimere il loro pensiero e quello che hanno scritto ma di sapere parlare e, se necessario, di essere pronti a battibeccare. Di conseguenza sono graditi negli studi quelli che, alla Sgarbi, “spaccano” il video, che attirano l’interesse, meglio ancora la curiosità e, nel massimo degli auspici del conduttore, la morbosità. Al di là dei libri che hanno pubblicato e di quello per cui sono stati invitati.
Grandi pensatori e studiosi italiani, quali Giorgio Agamben, Mina Gregori, Chiara Frugoni (finché era viva) e con lei Maurizio Calvesi, Donatella Di Cesare e tantissimi altri di primissimo ordine sulla scena mondiale, sono ignorati dalla televisione, un po’ per loro ritrosia (nella loro consapevolezza che la televisione per sua natura trasforma anche la discussione più seria in uno show, per cui persino un funerale deve piacere per fare share), e un po’ perché “non sanno tenere la televisione”.
Per questo motivo un giorno Giuliano Ferrara, in “L’Istruttoria”, prima di andare in diretta, chiese piuttosto preoccupato a un nuovo ospite: «Ma tu sai parlare in televisione, vero?». Già, perché davanti alle telecamere non si parla come a un convegno. Per modo che, dal momento che trovano più considerazione e hanno la sede naturale nei convegni, i libri vanno in televisione insieme con i loro autori per rimanere all’ingresso ad aspettarli. Oppure si offrono ai riflettori per fare i giullari o i cilindri magici.
In “Attenti al libro” la Fialdini ha invitato Maurizio Di Giovanni per dire ovviamente qualcosa del suo “ultimo libro” (formula fissa in Tv) e fare da giudice tra Camilleri e Simenon, nel senso di stabilire chi fosse il più bravo. Scelta scontata dal momento che Di Giovanni (per sua ammissione in studio) era amico di Camilleri. Scelta soprattutto sbagliata e prova di quanto la Fialdini sia digiuna di letteratura. Camilleri e Simenon non sono accostabili, come non possono esserlo Manzoni e Foscolo, benché i due fossero contemporanei, frequentatori assidui e protoromantici. Uno era narratore, l'altro poeta. Camilleri e Simenon, benché anche giallisti, stanno anche loro su orbite diverse. La più piccola è quella dove gira Camilleri, che copiò il suo Montalbano dal Maigret di Simenon, la sua sindrome come chiamò il rapporto con lui, nato sin da bambino perché suo accanito lettore, come riferisce in “Il mio debito con Simenon” di Racconti quotidiani. La sproporzione di libri pubblicati (poco più di cento contro i quasi cinquecento del francese, dato che più volte Camilleri ricordava per respingere ogni analogia) non consente alcun parallelo se non appunto in un giochino di televisione, artefici una conduttrice fuori posto e uno scrittore disponibile alle pantomime.
Camilleri fu così inferiore a Simenon da prendere da lui anche il suo “Montalbano Secunnu”, la figura surreale del commissario che parla con l’autore, ciò che in “Le memorie di Maigret” ha già fatto il parigrado parigino con il suo creatore. «Ho preso tante cose da Simenon» ammise Camilleri. «Ma la principale resta quella di avere imparato da lui, attraverso lo smontaggio e il rimontaggio dei suoi romanzi per sceneggiarli per la televisione, la struttura del giallo all’europea, che è assai diversa dalla struttura del poliziesco all’americana». Ora, come si fa a immaginare una gara tra un maestro e il suo umile alunno? Solo certa televisione può pensare di farlo. E lo fa eccome senza rossore alcuno.