Perché uno studioso come Calasso, il cui interesse è sempre rivolto a svolgere sensi generali, viene stavolta attratto da una singola figura di artista, peraltro molto illetterato, come Giambattista Tiepolo? Il Tiepolo, si badi, figlio di un Settecento con il quale finì per entrare in rotta di collisione non meno di quanto lo stesso Calasso riguardi quell’età con distacco.
L’interesse verso l’opera del veneziano, nutrito con l’acribia-acrisia del filologo miniaturista e la mano lieve dell’archeologo, non può non essere nato in Calasso che dalla fanerogama dei precedenti studi compiuti sui due crinali della cultura orientale e di quella classica, da Ka a Le nozze di Cadmo e Armonia a La letteratura e gli dei: dove è sempre l’elemento divino a fare da dromo. Sicché nell’ossessiva ricerca del sinolo che riunisca (pur’anche con apporti teurgici e trismegistici) fedi e credenze di ogni civiltà e tempo in un composto di spirito e materia, terreno nel quale Calasso ha piantato da decenni le tende, il viaggio di dottrina al soprannaturale lo ha portato a Tiepolo: probabilmente con sua stessa meraviglia e in maniera stocastica. Ma quale Tiepolo? Non l’erede di Veronese e Carpaccio, del «mondo che esisteva per essere dipinto» e dunque della mediazione mimetica, come pure l’artista è stato compreso, ma lo scardinatore di quelle porte basculanti sul visibile perché schiudessero un orizzonte dove la realtà poggiasse su una nube e il mondo mostrasse la sua parte nascosta, cioè il deus absconditus e perciò la sua essenza soprannaturale e per questa via divina.
Tiepolo è un artista del mondo, non un anagogico e ispirato esteta, e dunque usa la materia divina con la stessa mano con cui utilizza materiali terreni che combinano magia e mantica. La sua visione è quella di un mondo riportato alla sua sfera primordiale dove natura e cultura, umanità e fenomenologia, celeste e terrestre non mostrano segni di distinzione e l’uomo si fonde col suo pabulum.
È per questo che (secondo una strategia che applica l’arte combinatoria leibniziana alla figurazione e una concezione che tiene conto del solo carattere genetico della figura e della sua «segnatura astrale») gli album dei disegni di Tiepolo raccolgono figure in una sequenza di aspetti e gesti che Calasso vede come «soldati pronti a essere gettati in campo». Nel tempo in cui la ragione illumina le menti sgombrandole dalla tabe della superstizione e dell’immateriale, Tiepolo volge lo sguardo a un’idea riveduta di barocco che si nutre dei lasciti dell’umanesimo e delle sue visioni ominose e apotropaiche.
Non poteva andare lontano e infatti la sua fama ebbe la strada sbarrata fino al primo romanticismo, quello nero e mesmerico, che rilesse l’artista attribuendogli l’identità di autore. Ed è proprio in questa veste che Calasso assume Tiepolo: come inventore di storie figurate, come cioè narratore: un narratore gotico. Ma in che misura Tiepolo si rivela narratore «nero» agli occhi di Calasso, salva l’accezione fondativa della pictura sinonimo di poiesis? E soprattutto in quale sede? Quasi in avvio di studio Calasso sembra avvertire che si servirà dello strumento della «sprezzatura» (classico e nobile mezzo di investigazione letteraria) per stabilire la vera natura di Tiepolo e gli riconosce senza meno questa arte di dire tacendo, o meglio di realizzare scene senza tradire fatica né affettazione, in sostanza nascondendole alla vista ma caricandole di significati enigmatici. Il ricorso reiterato che nei suoi affreschi Tiepolo fa alla presenza di figure di orientali sembra non rispondere che a scelte esornative, eccipienti senza funzione attiva. E invece il loro ruolo è ben più che decorativo (la qualità che più ha nuociuto all’interpretazione dell’arte tiepolesca) e ben più che uno scherzo. Ricercando con la lente di ingrandimento ulteriori occorrenze orientali giustappunto negli Scherzi e nei Capricci (le incisioni passate pressoché sotto silenzio dalla storia dell’arte) - e ricercandole proprio a motivo della intima vocazione allo spirito orientalista, vedico in particolare - Calasso scopre che, appunto negli Scherzi, gli orientali costituiscono «un centro irraggiante» quando nella pittura si sono tenuti invece in posizione scorciata. Perché una tale promozione in opere non commissionate e quindi non dettate? Una prima risposta si ricava dalla voce panica di Tiepolo, deciso a ricreare «un mondo misto di divino, umano e animale dove gli elementi non avrebbero mai accettato di scindersi» integrando così «l’antica alleanza tra le potenze invisibili e i visibili talismani». L’orientale incarna infatti il potere magico, che giunge in Occidente con l’esercito di Serse e le divinazioni del mago Ostanes, i discendenti del quale si rivelano proprio gli orientali tiepoleschi che abitano con insistenza la scena occidentale: un’insistenza che da circospetta si fa manifesta quando Tiepolo accantona la pittura per l’incisione, dove la figura dell’orientale viene incaricata di un compito che Calasso individua nell’atto di guardare. Senonché l’orientale non guarda solo quanto sta succedendo ma anche quanto avviene fuori dalla scena, ciò che conduce a ritenere che stia succedendo qualcosa quantunque non si capisca cosa. Dunque la narrazione è innescata e il problema a questo punto è quello di sciogliere il segreto.
Calasso ci riesce rifacendosi a un tema che lo agita da sempre: quello dei serpenti, tema sviluppato già in La follia che viene dalle ninfe, dove pure è prospettato un segreto che, relativamente ai serpenti, Zeus confida a Persefone. Il serpente, che nella tradizione cristiana è simbolo di inganno e di perdizione, nella mitologia classica è invece fonte di vita: insieme con la sorgente e la Ninfa esso forma la conoscenza metamorfica ed è anche all’origine del mondo se pensiamo a Zeus e alla prima cosa che vede: Ananke e Tempo senza vecchiaia intrecciati in un nodo serpentino. E oltre a costituire altresì il caduceo di Mercurio il serpente rappresenta per la tradizione veterotestamentaria la via della salvezza indicata da Mosè nell’atto di innalzare il serpente di bronzo perché sia guardato per vivere. Sicché gli Scherzi, quanto agli orientali intenti a guardare, non sono che una continua ricodifica del credo della salvezza divina attraverso lo sguardo rivolto al serpente. La cui presenza nelle incisioni è costante e inquietante, ciò che fa dire a Calasso: «Se c’è un segreto in Tiepolo sono i serpenti e gli orientali sono coloro che hanno a che fare più di tutti gli altri con i serpenti, perché li guardano e li bruciano». Sono proprio i serpenti, con la loro corte di orientali, satiresse e satiri, gufi, nani, efebi, pulcinella e Morte, ad aprire la via iniziatica al divino: quel divino però commisto con elementi anche necromantici e arcani, quel divino che sta tra cielo e terra, in un locus che è il regno unico e indiviso creato da Tiepolo dove soltanto può nascere il «romanzo demoniaco» - gli Scherzi appunto - un fatto del tutto dissonante in un’epoca che ipotecata com’è dalla ragione è incapace, osserva Calasso, di immaginare un romanzo «nero».
Ma è un nero che si tinge di celeste e stinge nel rosa: un genere demoniaco cioè che guarda al divino (perché divino è per Calasso «ciò che non ha perso contatto con il serpente», nella cui natura si perde la divisione tra bene e male, essendo «l’emblema di ciò che travalica questa opposizione») e che si colora del rosa che - Calasso però non coglie questo elemento - nell’iconografia rinascimentale designa la sfera terrena, indicando per esempio il colore del manto della Madonna quando è raffigurata accanto al figlio che è sempre in tinta celeste. Quella che Calasso chiama «la questione dei serpenti», dalla disponibilità ad accogliere i quali - dice l’autore - si ricava «il carattere di una civiltà», è la fonte ispiratrice dell’intera opera tiepolesca, perché il serpente non ricorre solo negli Scherzi ma pure in tele come La folla e i serpenti di Trieste e informa, con un significato radicale, l’intera ricerca di Tiepolo. Che non poteva perciò non sedurre Calasso.