Forse è proprio vero: più il tempo passa e più la morte della madre agisce in Alberto Bevilacqua come ragione di vita - di chi della morte non riesca a farsi una ragione. Il rapporto foscoliano (con derive fogazzariane per ciò che di mesmerico riguarda il senso di una parusia: la presenza nella realtà di una immanenza ideale) va assumendo lo spirito di una ossessione mantrica e rasenta le sfere del surreale, del sublime e del patemico. Bevilacqua ha già detto di essere preda di una sensazione crescente, quella di avere accanto la madre, che non solo lo ascolta ma lo rende strumento di una forma di scrittura automatica di cui è lei stessa l’autrice: «A volte mi chiedo se certe cose che ho scritto siano davvero opera mia». La metamorfosi che la madre compie dai primi due libri della «trilogia del default», Lettera alla madre sulla felicità e Tu che mi ascolti, a questo postremo e patografico Lui che ti tradiva, è vertiginosa: da uno stato di assenza passiva trascorre a una condizione di presenza attiva, nei modi quasi di una reincarnazione.
Del resto, quale mezzo utilizza Bevilacqua per stabilire la corrispondenza e rendere presente la madre? Un registratore, l’apparecchio cioè che le scienze paranormali indicano come l’oggetto privilegiato per la comunicazione con l’Aldilà. Giustappunto Bevilacqua dice che, avendo trovato dei registratori, si è messo in ascolto della lunga confessione che della sua vita la madre ha lasciato incisa: è dunque lui che adesso ascolta, asseverando quanto gli ha detto Simone, il ragazzo autistico che la madre gli ha raccomandato morendo: «È stando in ascolto che riusciamo a farci ascoltare». Assumendo questa natura Bevilacqua ottiene dunque di evocare la madre al punto da riportarla in vita, elevandola a propria danda e volgendo una sensazione in certezza: che sia voluta dalla madre «la fatalità positiva» che gli consente di imbattersi in persone e situazioni».
Dopo la morte di lei va infatti in Argentina a rinvenire le radici della famiglia materna e conosce Bianca, nel cui sembiante individua i tratti di Lisa, la madre, maestra di tango, il ballo della seduzione sinonimo di eros; torna nella sua Parma e incontra una prostituta con la quale fa l’alba in Piazza Duomo davanti al battistero dell’Antelami: a dirle di lei, della Lisa; va a New York e all’altezza dei grattacieli, abbuiati perché gli uccelli migratori non ci finiscano come falene, stravede Dindòn, il passero che Lisa amava; va a Oslo e nella sfilata dei «Lebensborn», i figli nati dall’incrocio coatto tra tedeschi e donne norvegesi per la procreazione di una razza perfetta, intravede la tenace volontà opposta da Lisa, decisa a tenere quel figlio naturale che l’Oltretorrente dei sovversivi e dei comunisti non voleva perché frutto del sopruso di un fascista. «Lo vedi in quante forme sei presente?» le dice infine rimodulando in una poikilia dell’anima il suo «duetto per voce sola» intonato già nei precedenti due libri: perché è sempre alla madre che l’autore si rivolge, anche qui dove appare concentrato a parlare del padre, ma riuscendoci solo a metà: «Sto attraversando il mondo. Da mesi. Dopo la morte di mia madre. Un viaggio insieme a lei. Questo viaggio, immaginario e concreto, è un immenso respiro di liberazione».
Ma ovunque vada, lo spirito della madre lo segue facendosi sempre più presente quanto più in lui invale il «sentimento dell’assenza», quella «nostalgia malata» che lo induce a chiamarsi fuori dalla realtà, a sentirsi non più «coinvolto, partecipe, ma presenza galleggiante sulla moltitudine come una foglia». Questa chiamata in eternità che Bevilacqua sente come una voce mantica, che lo rende assente nel mondo più si fa intensa nella sua vita la presenza di lei, si traduce in una specie di mandala tibetano come il sonno iniziale nella Recherche di Proust, un elemento che tende a riunire e giustificare il complesso di un’intera opera letteraria: al punto che è lo stesso Bevilacqua a parlare, in riferimento al rapporto numinoso ma anche nosologico con la madre, nei termini di una «specie d’amore».
Un amore consacrato dal tempo, «l’insidioso labirinto», e dalla morte, che è una prossemica di rêve e revênant, la radice remota sulla quale riedificare la vita che verrà. Si ama una persona quanto più in lei la vita dilegua e la morte avanza. Bevilacqua finisce per amare il padre, che vicino alla fine diventa un bambino messo nelle sue mani, quando non è rimasto più nulla in lui dell’originaria aseità, quando l’arengo familiare diventa un’agape, quando il nodo si converte in legame e la vicissitudine di una vita in arsi si scioglie in una vicenda catartica che accoglie l’apocatastasi finale.
Contro la doglia iniziale, che faceva dire a Bevilacqua di considerare il padre «il piccolo dio negativo e positivo che non ha dato pace fino ai giorni della sua umiliazione definitiva», contro l’empusa nelle cui forme gli appariva il padre, il Bevilacqua che ha accettato tutte le oltranze della vita non riesce più a tenere le distanze dal genitore sicché è lui a realizzare il proposito della madre, quando ai «compagni» che la processano per quella indebita mesaillance politica e sociale giura che l’avrebbe cambiato lei il Mario, avesse dovuto starci tutta la vita. A cambiare il padre riesce invece il figlio, la piccola coscienza di candore e pudore che lo mette in soggezione perché lui aveva fatto il Pilato non sostenendo la Lisa nel proposito di non abortire e perché aveva guardato troppo la realtà, come suggerivano i «compagni» d’Oltretorrente, quando invece era necessario guardare a una planitudine di preludi e precordi: dimostrando alla fine che se aveva fegato, capace com’era di ardite acrobazie sul suo aereo e in orbace, il Mario non aveva però il coraggio del piccolo figlio cresciuto con un padre da ammirare ma senza un papà da baciare.
Anche questo una «specie d’amore», frutto del suo tempo, un’epoca invaghita d’epica, dove la fede politica regola i criteri di scelta e i battiti del cuore e dove il gesto conta più del senso. Quel senso che è l’elemento cardinale in forza del quale il figlio si mette alla spasmodica ricerca del «diario dei sensi» che il padre scrive per tutta la vita perché sia proprio lui a leggerlo, così muovendo una vena d’intesa che è anche un atto d’amore.
Ma è tutto vero quel che Bevilacqua ci racconta in questo libro confessionale, di una audacia come di un decoro oggi irrintracciabili in un ambiente letterario dove si tende a mascherare anziché mostrare? È per esempio vero l’episodio in cui da bambino, violentato da una giunonica matrona spuntata lungo l’argine e dentro il nebbione del Po, Bevilacqua si lascia prendere da un istinto omicida e risponde con la stessa violenza subita? È autentico l’altro episodio nel quale la madre affronta un maiale in una norcineria e lo ammansisce perché l’animale votato al maglio riconosce in lei un cuore soterico - pur trattandosi di un animo minato essendo destinata ad ammalarsi «proprio per la paura di essere trascinata da una forza oscura ad agire da madre norcina»?
Importa poco il peso del romanzo in un referto testimoniale tentato dal farsi testamentario nel quale l’autore dà conto del ruolo di cireneo svolto per tutta la vita in aiuto di una madre troppo amata e di un padre amato tardi. Importa piuttosto lo scioglimento dei grumi interiori a lungo rappresi che l’autore persegue: come una cura o il percorso di una via che anziché al Golgota porti a Emmaus. Che questo sforzo avvenga per mezzo della letteratura è motivo di merito della capacità del racconto di dettare ancora oggi i modi della conoscenza.