martedì 28 novembre 2006

Il manicomio è un supermercato. Parola di Celestini


Il mondo dal quale si osserva un manicomio non è lo stesso che a sua volta è osservato dal manicomio. Se quella che è la vita tende sempre a convertirsi in una forma e l’áperion, il principio infinito, diventa péras, finitezza, e se il Nicola che muore nel manicomio ha l’impressione - proprio il giorno della morte - che ad uscire dall’istituto non sia lui ma il manicomio stesso, è allora il suo mondo a doversi fissare in una cristallizzazione finita, perché solo da morto, dopo essere vissuto perinde ac cadaver, Nicola può lasciare la vita per assumere una forma. Senonché nel suo caso è proprio la forma a farsi vita: uscito dall’istituto, cioè una volta morto e diventato anima, Nicola scopre infatti quanto esso sia ridicolo, «un rudere antico e quelli che ci stavano dentro una specie di scheletri etruschi». Ma per tutta la vita, in una ontogenesi di rovesciamenti e rispecchiamenti, l’istituto è stato il suo unico mondo e quello esterno una trama di variazioni da interpretare secondo il codice dell’internamento.
Epperò la vita vera si rivela quella che dura il tempo di una rivelazione: gli attimi impalpabili nei quali Nicola scopre oltre al ridicolo dell’istituto anche il senso della distanza, che sottende quello di libertà: al centro di una piazza vede infatti che il muro più vicino è a venti metri, una distanza mai percepita dentro l’istituto; e finalmente, trovandosi per la prima volta da solo, respira «l’aria fresca»: compie cioè un gesto che integra un sentimento di libertà e di rinascita. 
Nicola rinasce quando dunque muore e quando si ritrova da solo in un «mondo» estraneo e sconosciuto senza più la paura che lo attanagliava dentro l’istituto; senza soprattutto, essendo notte quando esce, ovvero quando muore, la paura del buio. Lui sa che si può morire per la paura del buio, non ha fatto che ripeterselo per tutta la vita claustrale; sa che Dio ha creato la luce per disperdere il buio e che il buio è la condizione che vuole stabilire l’istituto, dove l’elettrochoc serve per spegnere le lampadine dei matti (che sono tutte accese) perché stiano al buio. Ma quando è fuori non teme più il buio. È morto in realtà ma, nella realtà che riscopre più vera, è rinato ed è vivo.
È a questa altezza che «la pecora nera», il malato, l’emarginato, l’elemento da isolare secondo una concezione calvinista della società, diventa l’uomo risorto e salvato involgendo una mistica cristiana, di redenzione dalla morte, qui ripresa da una visione dostoevskijana dove la pietas postula l’unica legge dell’esistenza. La vita eterna è dei tribolati, dei poveri di spirito, degli uomini come Nicola che il mondo ha segregato per la sua visione elementare dell’umanità e per la sua impossibilità a commettere peccati.
Per peccare occorre la volontà di perseguire un guadagno personale ma per chiedersi come è fatto il mondo occorre, secondo la lezione di Schopenhauer, avere conosciuto il dolore. Senza di esso a nessuno verrebbe in mente di chiedersi perché il mondo esiste. Nicola, che il dolore ha esperito sin dalla nascita, si pone queste domande da una posizione di stupore, la condizione base dell’uomo, e giunge a intuizioni che sono una chiave di rilettura della vita: come quella per la quale anche gli astronomi, alla vista di una stella cadente, esprimono un desiderio. 
È il credo in una filosofia naturale e immagata, profilata nella fede in una immanenza soprannaturale, a rendere Nicola anima candida, rimasto in manicomio perché sin da bambino mai educato alla logica della mistificazione, del disinganno, avviato essendo stato piuttosto alla rottura della prescrizione naturalistica e relegato nella sfera dei principi fondativi, nel loro stadio di prelievo. In La pecora nera (Einaudi) Ascanio Celestini ha esplorato il manicomio con una protrettica tesa a revolvere gli abusi di una concezione consolidata facendone un luogo privilegiato per capire l’uomo e salvare l’anima. E ne ha fatto uno spettacolo che ha convertito in un libro di idee e di gnomica.


Il manicomio è visto come riduzione del mondo, una sua rappresentazione, o come una sua alternativa?
In realtà a me interessava il manicomio come unica e grande istituzione che nel corso del Novecento è stata rivoluzionata e sconfitta. Ma poi, nel corso del lavoro di ricerca che ha preceduto il libro e lo spettacolo e che mi ha impegnato per sette anni di interviste, mi sono reso conto che il manicomio c’è ancora e non nel senso metaforico come per dire che siamo tutti matti, no anzi, perché ci sono i manicomi giudiziari, quelli privati, c’è una parte di manicomializzazione nel pubblico che riguarda le persone che ci sono state per molti anni e ci sono anche adesso in situazioni molto simili a quelle passate. E c’è un uso di psicofarmaci decisamente maggiore. Gli psicofarmaci nascono come contenzione chimica nel manicomio, come alternativa alle fasce, ai corpetti, ai letti, alle camicie di forza, per poi diventare pian piano un normalizzatore della vita quotidiana. Se prima lo psicofarmaco era usato contro il paziente al posto delle fasce di contenzione adesso viene utilizzato in buona parte dell’Occidente per continuare a tenere la gente nel posto di lavoro, a farla lavorare come cassiere anziché impiegata alle poste: all’interno della società e non più fuori.
Ma la concezione che offre del manicomio sembra di tipo novecentesco, dove invale per esempio la pratica dell’elettrochoc.
L’elettrochoc c’è ancora oggi ma vien fatto in maniera diversa. Come mi diceva uno psichiatra di Reggio Emilia, prima veniva fatto a crudo, col paziente sveglio, mentre adesso sotto anestesia e il paziente immobilizzato. Uno che è ricoverato al Santa Maria della Pietà di Roma, dentro da 42 anni, mi diceva che gli fanno l’elettrochoc pure se c’è finito perché orfano e per imparare un mestiere (perché i manicomi erano delle vere e proprie città autonome): e stando lì hanno finito per fare l’elettrochoc anche a lui. Le terapie choccanti stanno scomparendo o sono molto diminuite rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, è vero: ma solo perché è cambiata la nostra idea del corpo. La verità è che oggi lo psicofarmaco è in voga come lo è stato in passato l’elettrochoc.
La storia di Nicola è ripresa da un caso vero oppure è la sintesi di storie comuni alla vita manicomiale?
È presa da una serie di storie, tratte da interviste fatte per anni soprattutto agli infermieri.
Perché gli infermieri?
Dovendo cominciare il lavoro di ricerca ho dovuto scegliere quali persone intervistare. In effetti chiunque può essere sentito: parenti, vicini di casa, esperti. Ho sentito psichiatri e pazienti ma in particolare ho sentito gli infermieri perché mi sembrava che nel manicomio fossero quelli capitati per caso: molto spesso perché cercavano lavoro, l’unico che fino a poco tempo fa era abbastanza facile - c’era solo un anno di corso da fare. Molti diventavano infermieri perché grandi e grossi. C’erano lavoratori stagionali e contadini che lavoravano la terra e poi facevano gli infermieri negli istituti di provincia. Tutta gente che raccontava le storie più concrete perché non conosce l’ideologizzazione e il punto di vista medico sulla malattia mentale. Era questa la gente che cercavo.
Marinella che è prigioniera del supermercato e Nicola che lo è del manicomio non è che siano poi in situazioni molto diverse di segregazione, perché nessuna delle due è spontanea.
Certo. Il manicomio è il luogo per antonomasia senza oggetti, che vengono tolti tutti perché con qualsiasi oggetto ci si può fare male e si può fare male agli altri. Tolti gli oggetti dalla disponibilità del paziente, egli perdeva una parte consistente della sua identità e la spersonalizzazione derivava soprattutto da questa privazione. Nel supermercato viviamo qualcosa di simile: gli oggetti non ci vengono tolti ma ci viene sottratta la conoscenza di essi. Li chiamiamo prodotti ma della loro produzione non sappiamo niente. Sostanzialmente sappiamo soltanto ciò che riguarda noi, cioè il consumo. Sono dunque oggetti di nessuna identità per cui perdiamo la capacità di relazionarci con essi. Il supermercato non è il manicomio in senso tradizionale, ma determina al suo interno uno stato di spersonalizzazione che è simile: come io nel manicomio alla fine avevo il minimo per sopravvivere, e per il resto mi rendevo invisibile alla società, così nel supermercato non sono tenuto nemmeno a conoscere la lingua per servirmi: prendo il prodotto, lo metto nel carrello, vado alla cassa, vedo il prezzo e pago. Posso anche essere straniero oppure muto e sordo, senza avere alcun contatto umano, sicché mi rendo invisibile e trasparente.
Nicola si rivela un bambino non deficiente perché non crede alla bugia di Marinella, però la perde perché lei vuole essere creduta. Nicola avrebbe dovuto dunque fingersi scemo?
Nicola non crede a Marinella che finge di mangiare un ragno e commette un errore perché non capisce che quella non è una vera bugia. Non capisce che è una bugia alla quale deve credere perché è un gioco. Rimane perciò sconfitto dall’incapacità di distinguere gioco e finzione, ciò che lo rende un perdente.
Perché la continua reiterazione che lei fa dei «favolosi anni Sessanta»?
Ho voluto esaltare quella che è stata una sorta di età dell’oro, un momento straordinario del nostro passato, anche per rimarcare la falsità che sta nelle situazioni totalizzanti che sono sempre fondate sul mito: così come il manicomio è il luogo che dovrebbe mettere ordine nella mente, anche nella storia della società ci sono momenti-cardine dai quali sembra che inizi un nuovo ordine. Gli anni Sessanta per noi furono favolosi perché sembrò che dovessero traghettarci altrove.