venerdì 16 gennaio 2009

La solitudine dei primi della classe


Il libro del 2008, con un milione di copie vendute, è stato La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, vincitore anche dello Strega e del Campiello giovani. C’è da chiedersi se, con un altro titolo, un’altra copertina e un altro editore, questo romanzo avrebbe avuto la stessa sfacciata fortuna.
Sfacciata perché del tutto immeritata. Il responsabile Mondadori per la narrativa italiana, Antonio Franchini, ha ammesso di avere scelto copertina e titolo, che sono gli elementi primari del successo. Ha anche detto che il libro gli è tanto piaciuto da aver telefonato a Giordano dopo una cinquantina di pagine. I gusti non sono discutibili né disputabili e i libri, come tutte le creazioni artistiche, sono suscettibili dei giudizi più disparati. Bello è ciò che piace sicché vedremo ciò che è piaciuto a Franchini. Ma al pubblico? Cosa gli è piaciuto di questo libro?
Certo, bellissimo è il titolo, che di per sé non significa assolutamente nulla ma che è fortemente evocativo: prima che si capisca cosa intenda (ciò che è possibile leggendo il libro) lascia immaginare due mondi che si incrociano: quello umanistico e quello fisico, filosofia e matematica insieme. La solitudine è una condizione esistenziale propria dell’uomo moderno, ancor più una concezione cara alla moda generazionalista; i numeri primi sono quei numeri che sono unici, divisibili solo per se stessi e per uno, unici e perciò «mitici», come certe persone di fascino che si guadagnano un epiteto oggi di moda posto a indicare quello che una volta era detto «un tipo». In realtà il titolo integra una tautologia, i numeri primi tali essendo perché appunto in solitudine, senonché a invalere è il piano metaforico involgendo una solitudine di anime diverse e perse, tanto più sentite e sensibili perché giovani e quindi votate a un destino irricusabile. Ma il titolo esatto avrebbe dovuto essere “La solitudine dei primi gemelli”, in riferimento a quanto lo stesso autore spiega circa la specificità dei numeri gemelli, i cosiddetti «primi gemelli», numeri rari che si trovano sempre vicini, come sono Mattia e Alice. Epperò il titolo avrebbe fatto pensare a ben altro e allora ne è stato trovato uno fuorviante.
Bella è anche la figura di ragazza in copertina, molto vermeeriana, decisiva per designare il target e indicare il tema ai giovani reduci dalle svenevolezze di Moccia e Volo: una copertina che diventa icona come i coltelli irti di Gomorra, simbolo quindi necessario a un processo di identificazione. 
Dimodoché se numeri primi sono i giovani e giovane è la ragazza della copertina, il pubblico non potrà che appartenere alla platea giovane, esattamente della quale fa parte anche l’autore. E’ questo gioco di rimandi e intese alla base del successo del libro, che dunque viene letto non tanto perché piaccia o meno ma perché è necessario a interpretare la coscienza giovanile, la sfera dei Muccino e degli Scamarcio. 
Il romanzo è arrivato sul mercato – e sui comodini dei sognanti teen agers – come forza alternativa a Tre metri sopra il cielo, privato quindi delle voci estenuate, dei sospiri e dei lucchetti e, recuperando un gusto che sembrava morto insieme con la categoria dei «cannibali», girato tutto in chiave non di incontro ma di scontro, non di presenza ma di assenza, con l’aggiunta di punte di splatter laddove troppe mani sanguinano per autolesione. Ma qui c’è un additivo nuovo e originale, il cui utilizzo può adombrare colpe a carico dell’autore che non ha esitato a osare quanto finora era appena adombrato: portare sulla scena la disabilità e renderla protagonista e attiva. Mattia e Alice sono infatti due handicappati: lei è menomata perché zoppa, lui ha profonde tare mentali che lo rendono come autistico, eccellente in matematica ma spinto a trovare sfogo procurandosi profondi tagli nelle mani. E’ questa «diversità» narrativamente corretta e portata di peso in un romanzo borghese che è piaciuta prima a Franchini e poi a centinaia di migliaia di lettori perlopiù giovani, vaganti alla ricerca della scossa e decisi a vedere all’opera due vinti – per giunta legati da una «storia» – non solo protagonisti ma per nulla disposti a farsi schiacciare dal mondo. Un romanzo, a quanto sembra, prima studiato a tavolino, annusando l’aria ed analizzando dati circa le ultime tendenze giovanilistiche, e poi scritto con una tecnica di montaggio che ammicca al cinema, scena dopo scena. 
Il romanzo perfetto dunque, nato in laboratorio e frutto di una joint venture che ha raccolto attorno all’autore altre figure professionali? Piuttosto direi il romanzo che dimostra come in letteratura, crocianamente parlando, nulla si può costruire, perché tutto è intuizione, cioè ispirazione, senza la quale resta solo l’artificio. Vediamolo più da vicino questo «capolavoro» della tecnica narratologica. 
Alla base di un amore anomalo, fatto per suscitare commozione e impressionare la buona coscienza perbenista e benpensante, agiscono incogruenze che rasentano il grottesco se non il risibile. Passi che possano aversi genitori che mandino da soli i propri figli di appena sette anni una in montagna durante una giornata di neve, affidata solo a un incauto e distrattissimo istruttore, e l’altro di sera a una festa con la gemellina del tutto ritardata mentale. Non può però passare il modo come bambina e bambino diventino handicappati e quindi «numeri primi». Lei si apparta nella nebbia sfuggendo alla vista dell’intera comotiva e finisce per rompersi una gamba. Ed è costretta ad appartarsi perché colta dal bisogno di liberarsi da uno stimolo corporale insostenibile essendo afflitta da una perniciosa coazione ad espellere. Mai vista una bambina di sette anni che di fronte alla paura di allontanarsi dal gruppo in una giornata di nebbia fitta ritenga maggiore la paura di farsela addosso e abbia così spiccato il senso del pudore. Mai visto neanche un istruttore così sbadato e incosciente. Quanto a Mattia, decide di portare con sé la gemellina alla festa (a piedi perché per fortuna la casa del compagnetto è vicina) ma a metà strada viene colto – a sette anni! – da un forte senso di vergogna e lascia per qualche ora la sorellina in una panca del parco. Naturalmente quando torna non la trova più e subisce un trauma che gli cambierà la vita trasformandolo in un diverso, mentre semmai diverso è già prima, perché non si è mai visto un bambino così piccolo che abbandoni la sorellina senza rendersi conto delle conseguenze se non dopo che la perde. Mai visti d’altronde genitori così strafottenti e pigri da non accompagnare i bambini in casa del compagnetto, appunto perché è a due passi.
A causa di questi vizi originari, il romanzo muove e si sviluppa con un tasso di improbabilità e di banalità di cui non riuscirà più a liberarsi, tra siparietti e bozzetti che vorrebbero essere epifanici (come quello in cui Alice chiede nel bagno di scuola a Mattia di cancellarle con un pezzo di vetro un tatuaggio sulla pancia e lui si rifiuta dicendole che non lo vedrà più perché ce lo ha sempre sotto gli occhi), coltivare il futuro e interpretare il senso della vita, ma che si traducono in trovate spente e senza forza, in una sequenza di episodi che non fanno racconto e che peccano della stessa inefficacia di tutte le similitudini, figura semantica cui l’autore ricorre con ostinazione e grande improntitudine sortendo effetti a volte esilaranti. 
Lo stile è piatto, analogico, costruito per piacere a un pubblico che ama più il fumetto che non il libro e che ha una mente televisiva, esercitata sui telefilm. I dialoghi sono mimetici, fatti per chi vuole sentire parlare i personaggi come ama egli stesso parlare. Le scene sono conchiuse, sapute, e le descrizioni, che vorrebbero ricordare le atmosfere circolari di De Carlo, si risolvono in contorte note ombelicali quando non in lepidezze del tipo dei cento watt di lampadina che, accendendo l’interruttore, esplodono nelle pupille. Le pose sono create per via di stereotipi cinematografici, come quella del medico che batte due volte le mani sul metallo del letto per significare che va via mentre in tutto il romanzo aleggia un odore di trementina, di vaghezza e di indistinzione che lascia indefinite non solo le figure poste nei secondi piani, i genitori dei ragazzi, Fabio il medico, il collega di Mattia, ma anche quelle dei protagonisti che non appaiono mai vividi, riconoscibili per strada e perciò identificabili e memorabili. 
La storia di per sé non è semplice ma scontata, con tutti i personaggi necessari a fare mondo: l’amico gay, la madre ammalata di cancro, il padre depresso, il terzo innamorato, le compagne di scuola perfide e bulliste, la colf immigrata e sapienziale. L’anoressia di Alice completa poi il quadro delle belle figurine del nostro tempo. Scontata è la vendetta di Alice che diventa fotografa e umilia Viola che a scuola l’aveva derisa e beffeggiata. Scontato è il fatto che Mattia vada via all’estero e che Alice si sposi con Fabio. Scontato è che Mattia conosca un’altra e che Alice litighi con Fabio, cosicché i due possano rivedersi, ma solo per dirsi addio perché sono cambiati. Non è scontata invece l’idea di riesumare Michela, la gemellina scomparsa. Alice crede di intravederla in un ospedale e scrive a Mattia perché torni subito dalla città del Nord Europa (chissà perchè mai nominata) dove insegna matematica, ma poi non gli dice – inspiegabilmente – nulla della sorellina e lascia che vada definitivamente via: prima ritiene importantissimo farlo arrivare di volata e poi trova che sia inutile, pur sapendo che la ricerca della sorella sarebbe per Mattia la medicina che gli slaverebbe la vita e l’anima. Ma vede che tutto è cambiato e dunque tace. Sa lei – e Giordano – perché mai.
Non è scontato ma buffo il fatto che, vedendosi dopo tanti anni, Alice costringa Mattia a guidare per la prima volta un’auto: un escamotage di basso spunto perché possano evitare per un soffio un incidente stradale, Mattia possa farsi male e finire indolenzito nella stanza di Alice. 
Ci sono troppi episodi in questo romanzo che non legano, che non si giustificano nel circuito narrativo, al quale rimangono del tutto estranei. Ci sono troppi costrutti e concetti che vorrebbero rendere i mondi interiori dei protagonisti ma che riescono leziosi e tutto sommato inutili. C’è troppa voglia di trovare l’oikos della vita che si spalma negli anni e che non lascia mai le cose come stanno, giri mentali questi frequentati da sempre a sazietà, perché alla fine la sensazione non sia di una vita dipinta e recensita. Giordano vuole evocare suggestioni dentro una prospettiva che dallo splatter salti all’ennui e che misceli in un geyser rigurgiti primonovecenteschi quanto a vite dimidiate e spiriti franti e inetti con istanze di maggior momento relative a modelli della contemporaneità e appena dismessi motivi pulp. Ma il risultato è un’olla podrida, una satura lanx dove c’è molta maniera, molta ricerca, ma poco mestiere e pochissima o niente affatto letteratura.