Chissà se Mastella si è dato alla critica letteraria dopo aver lasciato la politica. Lo auspicò nel 1995 Gesualdo Bufalino: ma per scherno, essendo stato definito «intellettuale di serie B». In un’intervista disse a fior di labbra: «I suoi giudizi sulla mia attività di scrittore rivelano un tale talento critico da far rimpiangere che abbia scelto la carriera politica anziché letteraria. Alla quale mi auguro si converta ripudiando la prima, con conseguenze che immagino fauste per il futuro della nostra nazione».
Le cose per la nostra nazione non sono andate granché meglio, nonostante il disimpegno di Mastella, che comunque non ha esattamente ripudiato la politica, epperò Bufalino si è guadagnato una fama divinatrice davvero insospettabile in uno spirito spinozianamente legato al credo del «lume naturale».
Le cose per la nostra nazione non sono andate granché meglio, nonostante il disimpegno di Mastella, che comunque non ha esattamente ripudiato la politica, epperò Bufalino si è guadagnato una fama divinatrice davvero insospettabile in uno spirito spinozianamente legato al credo del «lume naturale».
Ma da dove nacquero giudizi così tranchant? Sebbene entrambi meridionali, Mastella e Bufalino si ritrovarono su campi opposti nel pieno di una polemica, abilmente fomentata dal “Corriere della sera”, sulle due Italie: una che paga le tasse, produce beni e servizi, traina il Paese, e l’altra truffaldina, parassitaria e tutto sommato in taccia di zavorra per il Nord. In pieno Ferragosto il "Corriere della sera” ebbe l’idea di sentire non un esperto ma un letterato meridionale in risposta ai dati, poi smentiti, sulla forte evasione dell’Iva nel Sud. E la scelta cadde sul più appartato e scansasassi siciliano, il letteratissimo Gesualdo Bufalino, tanto escapista da guardare con dispetto e stupore autori come Sciascia capaci di sentenziare su temi a lui estranei quali la mafia e la politica. Una trappola forse, quella tesa dal Corriere, ben consapevole che Bufalino si sarebbe mosso a tentoni.
Così fu. Dopo aver declamato che un ricco che ruba commette un reato gravissimo mentre un povero si macchia solo di colpa grave, lo scrittore che vedeva la Sicilia anche in una mela e che non leggeva giornali perché aveva ancora da finire tutta Emily Dickinson, si lasciò andare in una tirata pro reo che gli prese la mano: smesso il lucco di difensore, indossò infatti il laticlavio dell’accusatore e prese a menare contro Bossi e Mastella tali colpi sul terreno del secessionismo da attirarsi le ire del primo antimeridionalista italiano, Giorgio Bocca. Il «giornalista principe, grande antropoetnosociologo», come lo chiamerà Bufalino, non si fece scappare l’occasione per accusarlo di essere un sentimental-lagnoso e, come tutti gli intellettuali siciliani, Sciascia in testa, di non avere capito il senso della vera questione meridionale: che era – ed è rimasta – un problema sì, ma non per il Sud quanto per il Nord.
Bocca raccontò che a Napoli un tassista aveva superato con il rosso e che richiamato da lui a rispettare i semafori si sentì opporre che a Napoli la violazione del codice non era vietata ma solo vietatina. A suo giudizio, Bufalino ragionava alla stessa maniera: siccome poveri, i siciliani si trovano in uno stato di necessità e quindi devono essere giustificati se non pagano le tasse. Senonché, visto che per evadere il fisco occorre sapere come fare, fu facile a Bocca mettere in capo ai meridionali una specifica capacità a delinquere.
A dar manforte a Bossi accorse Giuliano Amato che in quel tempo lavorava a un progetto a favore del Mezzogiorno. L’allora presidente dell’Antitrust riferì di un incontro con il cancelliere Khol il quale, per scoprire come i tedeschi riuscissero ad evadere il fisco, gli rivelò che andava a cena in un ristorante italiano solo per parlare con un pizzaiolo, Bruno, che era aggiornatissimo sulle tecniche tedesche più raffinate. Bruno, of course, era siciliano.
Ma il ragionamento di Bufalino era più sottile e il 23 agosto su “La Sicilia”, il quotidiano della città additata come la capitale dell’evasione fiscale, cioè Catania, firmò un intervento che può essere considerato il più distante dal suo mondo e il più estraneo al suo stile, un intervento voluto anche per ripubblicare integralmente la risposta a Bocca che il “Corriere della sera” aveva troncato rendendola pressoché incomprensibile. Riferendosi probabilmente a una vicenda personale, essendo stato più volte ricoverato a Milano per problemi cardiaci, Bufalino faceva la differenza tra una clinica milanese che incassa da un suo paziente 50 milioni fatturandone la metà e un fruttivendolo siciliano che non rilascia al cliente lo scontrino fiscale. Chi deve sentirsi maggiormente in colpa? Vero è che «milioni di minuscole evasioni fanno più danno di una grande» concedeva, ma è anche vero che non si tratta di assolvere il Mezzogiorno ma di «umanamente comprenderlo». Facendo stretto gioco di logica, Bufalino osservava che non è legittimo «uno scandalo orchestrato e tambureggiante su un Sud truffaldino incallito» né è legittimo «cavarne incentivi per una campagna separatista», perché al Nord non conviene «privarsi di una colonia redditizia, di un mercato interamente succube così nel necessario come nel superfluo».
La noce del discorso era in questo brano: «Conviene al Nord chiudersi dietro la linea gotica, escludendoci dall’Europa e abbandonandoci di conseguenza a espansioni e spinte che porterebbero la temuta cultura mediterranea a premere contro le soglie della Padania? E infine, i milioni di meridionali installati al Nord che statuto assumerebbero? Di assimilati, di meteci, di minoranze nemiche? Infine ancora: e se tutto questo (Jugoslavia docet) esasperasse gli animi fino al conflitto, fino al sangue? Si può tanto inconsciamente scherzare col fuoco?».
Di un candore innocente in affari politici, con uno stile elementare e uno sguardo appannato, Bufalino ritrovava invece la sua vera cifra di arguto recensore nella parte della risposta a Bocca cestinata dal Corriere: «Bocca mi accusa, e con me tutto il Meridione, suo antico e fruttuoso giocattolo, di sentimentalismo piagnone. Adduce come prova regina lo stile delle nostre lapidi di guerra, così enfatico a paragone della eroica sobrietà subalpina. Come dargli torto? Sarà colpa della canicola, ma noi siamo eccessivi. Eccessivi anche nel morire, se è vero che sotto quelle deprecabili lapidi giacciono 50 mila siciliani. Da sfruttatori incalliti, anche nella strage comune abbiamo preteso di ritagliarci la parte del leone (evito confronti circostanziati, che sarebbero ripugnanti). Erano, quei Caduti, perlopiù contadini, carne da prima linea. Giustamente a Cadorna importavano poco. Sia pace a loro, né mi sognerei dopo tanti anni di tirarli nel discorso, se non fosse lo stesso Bocca a parlarne, ansioso di trovare persino nei camposanti qualche ragione in più per denigrarci».
Fu quella l’unica polemica nella quale Bufalino si lasciò trascinare, traendo poi motivo per dichiararsi ingenuo nell’avere escluso che potesse nascere uno scandalo dall’esprimere qualche «ideuzza». E invece scandalo fu, cosa che spinse Bufalino a denunciare risentito il «meccanismo perverso, proprio di tutti i media, di enfatizzare, drammatizzare, estremizzare, con una sola e volgaruccia ambizione di vendite e di audience». Si trattò di un’esperienza che però lo scrittore non ritenne inutile perché consentiva di «misurare il tasso di ostilità nei confronti dei meridionali e la tendenza a travisare, insultare, inventare». Un’esperienza unica: Bufalino non amava la politica né i politici da cui tendeva a stare alla larga, sicché in quell’occasione avrebbe detto quanto si trovò a sussurrare in stretto dialetto comisano quando per la prima volta salì su un aereo e, prima del decollo, i passeggeri furono fatti scendere precipitosamente per via di un ordigno segnalato a bordo: «Proprio quando il pecoraio andò a legna».